Un particolare della copertina del libro
2 minuti per la letturaI TEMPI sono ormai maturi per fare un bilancio sul regionalismo italiano. Bilancio che, a giudicare da ciò che il covid ha messo impietosamente in luce, non può certo essere positivo, per lo meno non per tutti e non per tutte allo stesso modo.
Le Regioni, nate cinquant’anni or sono, per avvicinare l’istituzione ai cittadini, si sono rivelate macchine elefantiache che dissipano spesso risorse al solo scopo di autoalimentarsi.
A riflettere criticamente sul ruolo che hanno assunto le Regioni nel nostro sistema e sul fallimento delle attese riposte su di esse, è Franco Ambrogio in un libro appena edito da Rubbettino dal titolo “Regioni. 50 anni di fallimenti” in cui incalzato dal giornalista Filippo Veltri, già direttore dell’Ansa di Catanzaro, l’ex parlamentare e segretario regionale del PCI, si sofferma in particolare modo sulla Regione Calabria e sul vizio originale che ne ha irrimediabilmente condizionato la storia.
«La persistenza del municipalismo – osserva Ambrogio, ricordando la contrapposizione tra Catanzaro è Reggio per la scelta del capoluogo – è, ancora oggi, un male storico nella vita civile, pubblica e istituzionale della Calabria, figuriamoci 50 anni fa. Una visione regionale era, all’epoca, del tutto assente nei gruppi dirigenti. E ancora oggi non si sono fatti passi decisivi in questa direzione».
I fatti di Reggio, descritti nei dettagli da Ambrogio, stimolato dalle domande di Veltri, diventano nel libro una cartina di tornasole per spiegare la Calabria di oggi, i suoi mille vizi e le sue mille contraddizioni. Le conclusioni sull’esito di questo cammino durato 50 anni sono impietose: «Si è realizzato un nuovo centralismo inefficiente – osserva amaramente Ambrogio – a Roma si è aggiunta Catanzaro. La delega agli enti locali rimane nel cassetto, la legislazione poca e misera. C’è l’amministrazione, inefficiente e nemica delle regole. La Regione non è stata, quindi, strumento di allargamento e rafforzamento della democrazia. Si è accentuata invece, la presa dei partiti, o meglio dei vari gruppi di cui sono composti i partiti, sulle istituzioni e sugli enti; si è allargato il ceto politico; è aumentata la spesa improduttiva».
«Le conseguenze sono state doppie – la conclusione di Ambrogio – da un lato, le istituzioni hanno perso credibilità, non sono state in grado di essere punti di riferimento per il necessario cambiamento, anzi hanno finito col diventare di ostacolo a esso; dall’altro si è verificata una caduta della capacità di organizzazione autonoma della soggettività sociale e della sua azione».
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