Mario Draghi
4 minuti per la letturaPREMESSA obbligata. Non c’è nulla di più stucchevole e improprio che trasferire successi ottenuti da un campo all’altro: anche e soprattutto se il campo è quello di gioco. Vale per i successi sportivi che diventano ganci nel cielo della leadership; vale per candidature ottenute non per meriti politici ma per vittorie in altri ambiti; vale per la “società “civile” che diventa messe di bontà a discapito di tutte Caste. Ben sapendo che il serbatoio delle prime è la cornucopia delle seconde. Insomma per farla breve: campioni d’Europa sono Roberto Mancini e la sua splendida squadra. Non Sergio Mattarella o meno ancora Mario Draghi. Ecco, così va bene. O meglio: non del tutto.
Perché se, come detto, è improprio vestirsi di trofei altrui; dire che ogni travaso simbolico o anche fattuale è inverosimile, non corrisponde alla verità. Tutto si tiene, soprattutto nel mondo interconnesso del terzo millennio. E tutto vale per lucidare l’argenteria di uno Stato perché la sconfitta è di uno ma il successo ha molti padri. Circostanza talmente veritiera al punto di valere anche al rovescio.
Per cui se non vogliamo piegarci a sussulti di superbia nazionale e allontanate qualunque impulso sciovinistico, se rigettiamo come esempio di “poraccitudine” l’infilarsi negli abiti trionfali di altri, non possiamo tuttavia chiudere gli occhi di fronte all’enfasi, a tratti perfino imbarazzante perché del tutto insolita, che l’Europa, sia quella politica che quella del popolo, senza eccezioni tributa all’Italia capace di sconfiggere i predestinati d’Oltremanica, quelli che il calcio l’hanno inventato e a dispetto della realtà ritengono di detenerne il copyright a vita, patrimonio ereditario come Buckingham Palace e annesso trono, e con sussiego hanno sempre pensato che i guai stanno al loro Sud, tipo quando sulla Manica infuria la tempesta ed è il continente che risulta isolato. Giornali radio, tv, celebrano il trionfo del Bel Paese: e fin qui…
Ma è innegabile che nelle sedi istituzionali di Bruxelles, dove la presidente della Commissione Ursula von der Lyen sorride senza posa alla vittoria italiana; nel Bundestag della Bundeskanzlerin Angela Merkel dove hanno spolverato con più lena il tricolore; nelle Cortés Generales di Madrid dove il generale Luis Enrique ha fornito nuances strabilianti del concetto di sportività verso l’Italia, e perfino all’Eliseo dove Macron si lecca le ferite dell’ultima tornata amministrativa e intona l’inno di Mameli contro gli inglesi avversari di sempre, beh se succede tutto questo (e tralasciamo i giulebbe irlandesi e quelli perfino commoventi degli scozzesi) qualcosa vorrà dire. Bene. Precisamente vuol dire che ci dovrà essere qualcuno che tanta benevolenza verso di noi sarà chiamato raccogliere e far fruttare. Non indossando una maglia, né parando rigori (benché quel whatever it takes gli assomiglia assai), né inventando a tavolino schemi e strategie. Ma sciorinando la sua autorevolezza e competenza che adesso risultano, bon gré mal gré, a insaputa dell’uomo contorniate dall’alone sciamanico del portafortuna: insomma SuperMario Draghi.
A nessun altro può essere addossato il compito, e peraltro nessuno lo reclama. Ma il punto non è lui, non le sue qualità riconosciute. Il punto è l’adesione di gran parte dell’Europa e certamente della cittadella della Ue di affidare al presidente del Consiglio italiano la leadership che l’addio della Merkel rende vacante. Allo stato (e dopo lo stadio: calembour sfuggito…), non c’è nessun altra figura che può esercitarsi in quel ruolo.
Ma, appunto, quel che davvero conta è che le Cancellerie europee di Draghi si fidano e, ohibò, in qualche misura ora ce lo invidiano pure. Dove tutto questo porti è prematuro prevedere, e del resto se nei consessi internazionali il premier tricolore provoca applausi quando interviene, a Roma dovrà guardarsi dai serpenti sotto le foglie del grillismo nuova versione. Però quel che è conquistato stato, resta. Non c’è dubbio che adesso l’Italia va di moda e il suo Condottiero potrà/dovrà lucrare i frutti di una fase che fino a poco tempo fa appariva un ghirigoro di fantapolitica.
Invece ora Draghi guida una maggioranza di larghe intese che rumina umori e rissosità ma che di fronte a lui zittisce. E ora l’Europa si fida un po’ più (non così tanto ma quel tanto che basta) dell’Italia al punto, come ha fatto Ursula a Roma consegnando le pagelle del Pnrr, di indicarla a esempio per gli alti Paesi. Draghi non è personaggio da farsi ammaliare dalle luci della ribalta se non altro perché sulla ribalta è salito decenni fa e non è più sceso.
Casomai sentirà ancor più sulle spalle il peso delle tante responsabilità e delle tante attese, alimentate per adesione o per tranello. Resta che allo stato solo SuperMario può distillare la cordialità che arriva dai suoi parigrado nel carburante giusto per far ripartire l’Italia, per rimetterla in carreggiata sul percorso della crescita e dello sviluppo e per farle acquisire una nuova dimensione: non più parente povero bensì protagonista.
Solo Draghi può capitalizzare il credito che il nostro Paese sta guadagnando oltre quello che ha già guadagnato. In quale veste: se quella attuale o altre, si vedrà. Però oggi il suo stellone brilla senza particolari ombre. È una congiunzione che potrebbe perfino inebriare. Ma qualcun altro. Non SuperMario. Per lui è solamente un’opportunità da cogliere. La più succosa, questo sì.
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