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Giorgio Chiellini con Sergio Mattarella

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“VIVA l’Italia, viva l’Italia che non muore” cantava Francesco De Gregori nel 1979. Era la canzone di un’Italia ancora traumatizzata dalla strage di piazza Fontana di dieci anni prima, divisa fra nostalgia per l’amore e orrore per il terrorismo, contesa fra bandiere e cemento, fra giornali poco onesti e città metà giardino e metà galera. Oggi dovrebbe essere scritta un’altra canzone con altre parole, anche se la musica può andare ancora bene.

L’Italia ha vinto il campionato d’Europa ed è prima nelle classifiche della stima nel mondo. C’è un precedente: la vittoria dei campionati del mondo del 1982 con Sandro Pertini che saltava ad ogni gol, altre barriere al vento e sono passati quasi quarant’anni. Un lungo tunnel: poca luce fino a pochi mesi fa, poche settimane e poche ore fa.

Come sempre accade, alla fine è il fattore umano che decide. Quei ragazzi in azzurro, quelle lacrime, quel Mancio e naturalmente il fattore umano comprende un Presidente del Consiglio che di fatto è diventato il grande saggio dell’Europa intera. Che cosa è causa e che cosa effetto? Vale uno? Che non esista merito? O prestigio?

Ho passato la notte della vittoria a leggere i commenti dei lettori del Guardian londinese che commentavano non soltanto la finale degli Europei, ma commentavano l’immagine delle nazioni, la nostra e la loro, il rimpianto per l’Europa perduta che è andato, per mezzo della nostra squadra, a castigare il Regno Unito che ha scelto la Brexit e che nella notte della sconfitta manifestava rimpianto se non rimorso e che vedeva infranto il desiderio di godere una vittoria calcistica dal significato politico che sono mancati: sia la vittoria che il significato politico. Paradossalmente siamo adorati dagli scozzesi che ci considerano i loro migliori alleati europei. Centinaia di commenti rispettosi, al massimo un po’ sfottenti ma per lo più onesti, rari nei tifosi. Da cui traspare l’immagine del nostro Paese che si sta rialzando come un Arlecchino cui siano caduti in terra tutti i colori del suo costume e che gli si ricompongano di nuovo addosso rendendolo splendente e ricco.

Confessiamolo (o almeno io lo confesso): quando è arrivato come una fucilata il goal inglese abbiamo pensato: eccoci qui, siamo stati smascherati, è stato tutto un bluff, un colpo di fortuna, qualche rigore andato bene per caso, ma appena si arriva alla resa dei conti (ne eravamo sicuri), siamo l’Italia che quando i duri scendono in campo e si scompone perché si era soltanto illusa di essere ciò che non era.  Che vergogna abbiamo (almeno io l’ho provata) quando abbiamo visto una squadra che ha dominato in aggressività, solidità, armonia, coraggio, preparazione. Siamo stati ciò che pensavamo fossero questi avversari invincibili e abbiamo vinto.

Ma non è certo di calcio soltanto che stiamo parlando. Il calcio c’entra perché è un misuratore di affiatamento di squadra. Non solo calcistica. Abbiamo un governo che fa cose che il Paese aspettava da tempo, un passo dietro l’altro e abbiamo conquistato la vittoria a Londra un calcio dopo l’altro. La lingua inglese ha un verbo di cui non abbiamo l’esatto equivalente: to belong, che vuol dire appartenere a qualcosa che è sia dentro che fuori di te, è il tuo spazio, la tua patria, famiglia, ambiente: è quasi sempre ciò che ci manca e che seguita a chiamarci.

Nella notte fra domenica e lunedì abbiamo incontrato di nuovo tutti quel sentimento di appartenenza biologico e culturale dello stare insieme di fronte a un risultato e un combattimento che ci univa nel fattore umano. L’imprevedibile comune sentire. Tutta quella gioia commossa ripagava una fatica ben spesa ed era un comune sentire che nel nostro Paese non è facile rintracciare perché la storia è stata poco generosa con noi, quanto noi lo siamo stati nei confronti del nostro passato. Noi italiani siamo asfissiati dall’eccessiva bellezza di ciò che ci hanno lasciato i nostri avi e che abbiamo spesso la sensazione di aver gettato nella discarica della memoria. E invece, nella ripresa generale e nella vittoria calcistica in particolare non soltanto l’elettroencefalogramma è vivo e brillante, ma siamo in grado di stupire gli altri, di riscuotere una ammirazione composta e onesta, ma anche entusiasta. I nostri giocatori diventati icone mondiali, un Paese che riemerge da una notte profonda come la fossa delle Marianne e che si riconosce allo specchio, sente di appartenere a se stesso e di esserne fieri senza altra agitazione se non la felicità pura che il lavoro ben fatto porta a chi lo ha saputo creare.

L’Italia è viva, è l’Italia che lavora, come quella che cantava De Gregori ed è l’Italia che non ha paura, l’Italia con le bandiere con gli occhi aperti nella notte triste. Ma è davvero l’Italia che soltanto resiste, ma che con grazia atletica risorge e fa provare a tutti l’antico sentimento perdute e talvolta malfamato dell’appartenenza e dell’essere ben vivi vittoriosi per merito.


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