X
<
>

Share
11 minuti per la lettura

I MONACI delle badie, gli eremiti dei monti bollivano i lauri, le castagne, le eriche, i decotti, le patate e i fagioli degli orti. Il vino del Vulture dissetava le sudate transumanze. I massari di campo portavano sulle tavole bianche delle badesse il ravanello, il diavolicchio, il cirasello peperoncino, tutte le ricette da papiro delle madri ostesse. 
Alle taverne del postiere sostavano il cavaliere, il soldato, il gendarme, il vaticale, il mercante di grani. Il sogno del trainiere era di rovesciare le botti nelle fiere. C’era nei piatti la campagna: l’acre, l’aspro, l’acerbo, il salato, il forte, il piccante nelle salse di sensuale mistura. C’era il rancio del soldato, il prelibato’pasto del barone, il boccone fuggiasco del famelico attentatore delle querce, la sua fame selvatica, il suo agguato notturno, alle Croccile, al Cupulicchio, al Valico dell’Alata.
Erano pietanze sobrie, mano dopo mano, condite dalle attese, dalla fretta, dalla paura, dall’intensa fragranza delle boscaglie, dalle roventi mietiture, dalla trepidazione, dal pre-sapore delle tregue e delle pause, dall’assoluta assenza di alchimie. Il piatto di terra contiene le essenze dei tuberi, le radici, il sapore del buio e dell’umido: le povere stagionature del gusto, le scorze dei tronchi.
Nelle balze di sole e di vento, nei terrazzi terrosi delle coste, nei fossi intrisi dai rigagnoli, nei fondi muschiati dei muretti, nei canaletti di viottoli e mortelle s’alzava in vapori il frazzo delle stalle, si ordivano le storie merlate delle verze. Precipitava il sapore diluito nella scodella ribollita, il buglione, i senapi, i tadd r’ cucozze, la scottiglia di spunzali, i testardi, l’acqua cotta. Mense degli orti stracariche di gusto di terra e di foglie, sacro pinzimonio di radici a fìttone e cime a fasci.
La fava riempiva le bocche dei pastori e degli aratori, mandava in deliquio le monache del convento. Una minestra di fave cavalline, d’inverno, tubetti e fave di Turingia, d’estate, con pane e cipolle è condita di “Vulgaris” solo per l’aristocratico ghiottone che ama invece decorare i pasticci di manzo e di reina, i teneri manicaretti di uccellini, gli intingoli alla salsa calda, la selvaggina all’agresto, il pollo alla diavola, la tortiera di coniglio, con insalata di borracina, luppolo e scorzanera, maggiorana e noce moscata, con peonia ed issopo. C’era poi la radice commestibile: l’intera famiglia delle “cicoriacee”, selvaggia erratica di Plinio che non gustava l’amarezza delle foglie, e la varietà costosa, più bianca delle nostre indivie, la scarola.
II cavolo bianco dello sceicco aveva la sua corte di patate in ciottoli, rombi di Blanchard, barbabietole Mammouth, Brassiche rapa rapifere, sfere bianche di Pomerania, carote a coda di topo con colletto verde, spinaci, lattughe. Il cavolfiore è figlio del corsaro, “barbabieto” e navone, asparago e peperone, fragole al limone, fondine di clorofilla e sentine di sapore, la debosciata orgia dei sedani. 
Il più ricco è il pomodoro. Con origano o basilico entra nelle stagioni delle conserve, bottiglie, barattoli, nei grappoli rotondi appesi alle traveggole di cielo. Primaticcio orgoglio del mercato, sciabola dei piselli nani, bianchi e verdi riempipanieri, piatti del principe predisposti a corno di Montone, piselli cappuccini, pernice a macchie scure o con punteggiatura rossoporporina, cece bianco, cece nero, cicerchia, ingrassabue, lupino giallo-azzurro, veccia di velluto che pizzica la lingua ed il palato.
Con il caldo la spugna del corpo si inzuppava nei bivacchi, stralunava nel sole di luglio, nel grano coricato, nelle cicale assordanti, nelle pause, nei cammini tortuosi, peregrini, affardellati e si disseta di acetosella, di agretto, di cardo, di finocchio, di cetriolo. Le miniere di sale nel sudore dei trattori e i tratturi assolati sprofondano la sete nella fonte dei cocomeri. Chi va piano va lontano, gira, gira l’ortolano. 
C’era la sobrietà degli orti, arterie e vene, linfe e colori, teatro e fiaba nei carciofi, storia impressa nelle malinconiche cipolle, nel calore fumante dei paioli, nell’acqua che bolle i cavoli brontolosi, la menta fragrante, i brodi impregnati di salvie e prezzemoli, di “acci” e midolli. 
È l’autunno: ancora indugiano le stagioni della raccolta, sconvolte nei brevi meriggi da trafitture di luce o da nembi di pioggia e si dissolve tra gli adulti castagni la prima timida brina. Il paesaggio si scorge nel cupo verde e nel giallo che sconfina. E qui che la terra svela i suoi silenzi, i colori della vendemmia, e si abbatte, nella foschia delle nebbie, nell’alito dei solchi, negli strati fradici di foglie, il crepitìo dei ricci. Ora nei campi non s’ode voce. Un tempo le cantilene ed i richiami animavano il giorno. Ora gli attrezzi sostano al fienile ed il minatore delle aie si reclude nello spazio angusto del paese. 
Verranno ancora i giorni di dicembre a dileguarsi nel solstizio, la trepidante attesa di Natale, al trascolorare del tizzone ardente al velo di cenere. Riemergeranno i ricordi di storie perdute, di fatti di guerra e di pace, l’assorta presenza dei bimbi al racconto del nonno, al maturo melograno, alle castagne cotte che venivano prima del sonno a far gioiosa la sera col ritorno della favola bella. 
Ora c’è la castagna ingrediente e sostanza, antico amore dell’infanzia, supremo aiuto alle penurie, memoria degli affetti alimentati da carbonella accesa e spini. Nella città sorpresa dall’inverno, la prima nevicata ci esaltava nell’andare a scuola, quando dal rifugio di teli di sacco e di cartoni, afflitto dalle raffiche di neve, si diffondeva la fragranza delle caldarroste. Intenta a ravvivare la brace una vecchia, ravvolta nelle sciarpe, ingannava l’insidia del freddo. Ed era allora che una castagna riscaldava la mano che la stringeva nella tasca del cappotto. Quello era il tempo biblico della guerra e della precarietà, quando i fili dei destini umani erano tenui, pronti a spezzarsi, e la filosofia dell’esistenza si arrovellava nella fantasia del mangiare. Ed era la castagna a farne parte. Un sapore ancestrale, una visione d’abbondanza, le suggestioni della festa e della casa, quando le cose e gli esseri correvano incontro ad un fato ineluttabile. Discreto era il percorso della fame in direzione della sazietà, nelle provviste di castagne e noci.
È per questo che la castagna ha il suo intreccio con la fiaba, con il racconto e la poesia, il suo ruolo nel folclore e nel rito, con le creature terragne degli alberi, con i proverbi e le leggende, con le spine dei ricci e con le crepe a forma di croce. La farina era nelle madie per dolci e pasta casereccia da utilizzare nelle lunghe invernate. “Castagna piccola farina grossa”, si dice ancora in alcune regioni dell’Appennino.

I MONACI delle badie, gli eremiti dei monti bollivano i lauri, le castagne, le eriche, i decotti, le patate e i fagioli degli orti. Il vino del Vulture dissetava le sudate transumanze. I massari di campo portavano sulle tavole bianche delle badesse il ravanello, il diavolicchio, il cirasello peperoncino, tutte le ricette da papiro delle madri ostesse. Alle taverne del postiere sostavano il cavaliere, il soldato, il gendarme, il vaticale, il mercante di grani. Il sogno del trainiere era di rovesciare le botti nelle fiere. C’era nei piatti la campagna: l’acre, l’aspro, l’acerbo, il salato, il forte, il piccante nelle salse di sensuale mistura. C’era il rancio del soldato, il prelibato’pasto del barone, il boccone fuggiasco del famelico attentatore delle querce, la sua fame selvatica, il suo agguato notturno, alle Croccile, al Cupulicchio, al Valico dell’Alata.

Erano pietanze sobrie, mano dopo mano, condite dalle attese, dalla fretta, dalla paura, dall’intensa fragranza delle boscaglie, dalle roventi mietiture, dalla trepidazione, dal pre-sapore delle tregue e delle pause, dall’assoluta assenza di alchimie. Il piatto di terra contiene le essenze dei tuberi, le radici, il sapore del buio e dell’umido: le povere stagionature del gusto, le scorze dei tronchi.

Nelle balze di sole e di vento, nei terrazzi terrosi delle coste, nei fossi intrisi dai rigagnoli, nei fondi muschiati dei muretti, nei canaletti di viottoli e mortelle s’alzava in vapori il frazzo delle stalle, si ordivano le storie merlate delle verze. Precipitava il sapore diluito nella scodella ribollita, il buglione, i senapi, i tadd r’ cucozze, la scottiglia di spunzali, i testardi, l’acqua cotta. Mense degli orti stracariche di gusto di terra e di foglie, sacro pinzimonio di radici a fìttone e cime a fasci.La fava riempiva le bocche dei pastori e degli aratori, mandava in deliquio le monache del convento. 

Una minestra di fave cavalline, d’inverno, tubetti e fave di Turingia, d’estate, con pane e cipolle è condita di “Vulgaris” solo per l’aristocratico ghiottone che ama invece decorare i pasticci di manzo e di reina, i teneri manicaretti di uccellini, gli intingoli alla salsa calda, la selvaggina all’agresto, il pollo alla diavola, la tortiera di coniglio, con insalata di borracina, luppolo e scorzanera, maggiorana e noce moscata, con peonia ed issopo. C’era poi la radice commestibile: l’intera famiglia delle “cicoriacee”, selvaggia erratica di Plinio che non gustava l’amarezza delle foglie, e la varietà costosa, più bianca delle nostre indivie, la scarola.II cavolo bianco dello sceicco aveva la sua corte di patate in ciottoli, rombi di Blanchard, barbabietole Mammouth, Brassiche rapa rapifere, sfere bianche di Pomerania, carote a coda di topo con colletto verde, spinaci, lattughe. 

Il cavolfiore è figlio del corsaro, “barbabieto” e navone, asparago e peperone, fragole al limone, fondine di clorofilla e sentine di sapore, la debosciata orgia dei sedani. Il più ricco è il pomodoro. Con origano o basilico entra nelle stagioni delle conserve, bottiglie, barattoli, nei grappoli rotondi appesi alle traveggole di cielo. Primaticcio orgoglio del mercato, sciabola dei piselli nani, bianchi e verdi riempipanieri, piatti del principe predisposti a corno di Montone, piselli cappuccini, pernice a macchie scure o con punteggiatura rossoporporina, cece bianco, cece nero, cicerchia, ingrassabue, lupino giallo-azzurro, veccia di velluto che pizzica la lingua ed il palato.Con il caldo la spugna del corpo si inzuppava nei bivacchi, stralunava nel sole di luglio, nel grano coricato, nelle cicale assordanti, nelle pause, nei cammini tortuosi, peregrini, affardellati e si disseta di acetosella, di agretto, di cardo, di finocchio, di cetriolo. Le miniere di sale nel sudore dei trattori e i tratturi assolati sprofondano la sete nella fonte dei cocomeri. Chi va piano va lontano, gira, gira l’ortolano. C’era la sobrietà degli orti, arterie e vene, linfe e colori, teatro e fiaba nei carciofi, storia impressa nelle malinconiche cipolle, nel calore fumante dei paioli, nell’acqua che bolle i cavoli brontolosi, la menta fragrante, i brodi impregnati di salvie e prezzemoli, di “acci” e midolli. 

È l’autunno: ancora indugiano le stagioni della raccolta, sconvolte nei brevi meriggi da trafitture di luce o da nembi di pioggia e si dissolve tra gli adulti castagni la prima timida brina. Il paesaggio si scorge nel cupo verde e nel giallo che sconfina. E qui che la terra svela i suoi silenzi, i colori della vendemmia, e si abbatte, nella foschia delle nebbie, nell’alito dei solchi, negli strati fradici di foglie, il crepitìo dei ricci. Ora nei campi non s’ode voce. Un tempo le cantilene ed i richiami animavano il giorno. Ora gli attrezzi sostano al fienile ed il minatore delle aie si reclude nello spazio angusto del paese. Verranno ancora i giorni di dicembre a dileguarsi nel solstizio, la trepidante attesa di Natale, al trascolorare del tizzone ardente al velo di cenere. Riemergeranno i ricordi di storie perdute, di fatti di guerra e di pace, l’assorta presenza dei bimbi al racconto del nonno, al maturo melograno, alle castagne cotte che venivano prima del sonno a far gioiosa la sera col ritorno della favola bella. 

Ora c’è la castagna ingrediente e sostanza, antico amore dell’infanzia, supremo aiuto alle penurie, memoria degli affetti alimentati da carbonella accesa e spini. Nella città sorpresa dall’inverno, la prima nevicata ci esaltava nell’andare a scuola, quando dal rifugio di teli di sacco e di cartoni, afflitto dalle raffiche di neve, si diffondeva la fragranza delle caldarroste. Intenta a ravvivare la brace una vecchia, ravvolta nelle sciarpe, ingannava l’insidia del freddo. Ed era allora che una castagna riscaldava la mano che la stringeva nella tasca del cappotto. 

Quello era il tempo biblico della guerra e della precarietà, quando i fili dei destini umani erano tenui, pronti a spezzarsi, e la filosofia dell’esistenza si arrovellava nella fantasia del mangiare. Ed era la castagna a farne parte. Un sapore ancestrale, una visione d’abbondanza, le suggestioni della festa e della casa, quando le cose e gli esseri correvano incontro ad un fato ineluttabile. Discreto era il percorso della fame in direzione della sazietà, nelle provviste di castagne e noci.È per questo che la castagna ha il suo intreccio con la fiaba, con il racconto e la poesia, il suo ruolo nel folclore e nel rito, con le creature terragne degli alberi, con i proverbi e le leggende, con le spine dei ricci e con le crepe a forma di croce. La farina era nelle madie per dolci e pasta casereccia da utilizzare nelle lunghe invernate. “Castagna piccola farina grossa”, si dice ancora in alcune regioni dell’Appennino.

Share

COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA

Share
Share
EDICOLA DIGITALE