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Il Ct della nazionale italiana Roberto Mancini

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Inghilterra-Italia, certo. Kane contro Insigne, ovviamente. La sfida tra Southgate e Mancini, entrambi elegantoni con opposti schemi di gioco: what else?

E poi Donnarumma vs Sterling; Gareth contro Barella; il duello Jorginho-Mount. Ma se lo sport è la metafora della vita e il calcio lo è in massimo modo con i suoi falli, i tackle, gli aiutini, i fuorigioco: un’intera esistenza e i suoi affanni, allora la finale gli europei tra i Britons e gli azzurri va molto al di là del rettangolo di gioco. È l’alternativa tra due stili di vita; il contrasto tra diverse e irriducibili mentalità; l’opposizione infinita tra due identità.

Italia-Inghilterra è il challenge round che contrappone chi ha scelto di uscire dall’Europa volendo riscrivere la propria storia e chi a quella storia e a quell’appartenenza s’abbarbica puntando a confermarla come irreversibile.

Da una parte c’è un Paese che non ha mai metabolizzato la fine dell’impero e che per usi, costumi, lingua ritiene di poter continuare ad esercitare un ruolo di protagonismo universale. Dall’altra una comunità che si è aggregata da relativamente poco in Stato nazionale e non con tutte luci, ma che ha segnato il destino del mondo con un impero (lui sì) con radici millenarie, fatto di legionari e codici civili, capace di sottomettere l’Inghilterra tutta e poi – e con lei una caterva di Nazioni – ammaliarla nel Rinascimento con l’arte, la bellezza, la cultura.

Inghilterra-Italia è il raffronto tra due modelli costituzionali: monarchia e Royal family da un lato, con annessi e connessi di gossip e corna; e Repubblica parlamentare dall’altro, con trame, manovre e chissà quanti scheletri nell’armadio. È monocameralismo contro bicameralismo, e se succederà sarà bellissimo vedere seduti accanto la regina Elisabetta che nelle sue stanze riceveva Winston Churchill e Sergio Mattarella che ha visto sfilare nello studio alla Vetrata le premiership di Matteo Renzi e Giuseppe Conte.

Italia-Inghilterra è due radiografie. Da una parte un meccanismo elettorale dove chi vince prende tutto e chi perde va a casa e non torna; dall’altra un sistema misto dove nessuno davvero perde e nessuno davvero vince, e soprattutto dove chi è sconfitto non si fa mai del tutto da parte e resta comunque in gioco.

Italia-Inghilterra sono due leadership che si confrontano e affrontano forse anche rimirandosi l’una nell’altra ma per scorgerne ed esaltarne le differenze. Boris Johnson è l’uomo dal ciuffo ribelle, l’intellettuale scanzonato e colto che non sa concentrarsi su un documento lungo più di due pagine ma può recitare a memoria l’Iliade in greco antico. Il leader politico che ha affrontato la pandemia come fosse una partita di cricket, ricercando a viso aperto l’immunità di gregge, vincendo la battaglia e ora di fronte alla variante Delta aprendo tutto e abolendo le mascherine: che problema c’è?

L’Italia è il Paese che all’inizio ha affrontato più duramente e da sola il Covid, che ha scelto il lockdown come stile di comportamento, magari aprendo i balconi e cantando l’inno di Mameli. Lo Stato ora guidato da un signore che l’intera l’Europa e non solo ci invidia, che la sfrontatezza del collega d’Oltremanica non sa proprio cosa sia, che è colto in maniera poco appariscente ma sa fare tutte le cose giuste al momento giusto. Il capo di governo che ha preso per mano una comunità incerta e smarrita e la sta trasformando in una squadra vincente: il Mancio non se la prenda, ma quello che Mario Draghi sta disegnando sulla lavagna di palazzo Chigi è lo schema più vincente di tutti gli altri, perché a prevalere non sono un manipolo di giocatori bensì una Nazione che vuole rinascere.

Boris ama le brume e le Highland ed è convinto che più si distanzia dal resto del mondo, più amplifica la sua insularità e il carattere che le bianche scogliere di Dover forgiano, più si scaverà un posto sui manuali di storia. Draghi opera al contrario manovrando una stampante a 3d col braccio mobile del vincolo esterno rivolto verso il Tevere, che costruisce la nuova Europa nel segno dello sviluppo e della crescita seguendo la bussola della coesione sociale. L’Inghilterra pro Brexit ha visto crescere il Pil più di tutti gli altri ex compagni di continente. L’Italia di Draghi svelle positivamente previsioni e indicatori correndo come un cavallo che ha preso l’abbrivio: anche qui più 5 per cento. E se lassù dalle parti della City e di Westminster sono abituati, quaggiù è una specie di incantesimo scoccato dai superpoteri di SuperMario: vuoi mettere la differenza?

Messa così, potrebbe anche finire in pareggio. Ma lo sport prevede un vincitore, e il dopo pandemia idem.  Domenica sarà il match tra due stili di comando e due visioni della propria autosufficienza e immagine di sé.

Ai britannici hanno dato un rigore dubbio che li ha portati in finale; a Roma di rigore non vogliono più sentir parlare. Italia-Inghilterra è la partita tra chi vuole costruire il suo futuro innaffiando e irrobustendo le radici unitarie del passato per vincere la competition con i giganti del mondo, e chi invece pensa che il proprio avvenire esista solo a patto, quelle radici e quegli ancoraggi, di reciderli. Domenica sarà lo scontro tra l’Europa come vuole essere e l’Europa che non poteva più essere. Qui, dietro le Alpi, con i nostri maxi schermi saremo i vessilliferi di un continente che sarà vecchio ma pieno di energie. La von der Lyen ha detto che tiferà Italia. Luis Enrique, el hombre vertical, lo stesso. Macron non si sa ma in ogni caso è sicuro che sulla sua scrivania accanto al televisore garrirà un tricolore. Ale’ Italia, alè: facci sognare ancora una volta. Siamo europei: i migliori.


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