Studenti universitari in aula
4 minuti per la letturaGli ultimi dati Eurostat pongono l’Italia al penultimo posto in Europa per numero di laureati, sollevando il problema dell’abbandono universitario, che sottrae al mondo del lavoro potenziali risorse e competenze.
Un fenomeno che, apparentemente, si pone in contraddizione con il dato delle immatricolazioni, in crescita (secondo un recente rapporto di Almalaurea) nonostante le sfide didattiche imposte dalla pandemia. Gli atenei italiani, insomma, mantengono intatta la loro attrattiva nei confronti dei giovani ma riescono a condurne solo una percentuale all’obiettivo della laurea.
«Continuiamo a perdere troppe persone dopo l’iscrizione, il sistema universitario non riesce a mantenerle e, soprattutto, a farle laureare nei tempi» ammette al Quotidiano del Sud il prof. Alberto Marinelli, direttore del dipartimento di comunicazione e ricerca sociale alla Sapienza di Roma, per il quale una possibile soluzione risiede «in una tutorship diffusa, attenta ai problemi dei singoli studenti, perché quando lavori sui grandi numeri non riesci ad avere piena contezza del disagio individuale. Anche per questo, come ateneo, ci stiamo dotando di mezzi informatici che permettono di seguire in tempo reale la carriera degli iscritti. Faccio un esempio: se un ragazzo viene bocciato a un esame 2/3 volte, questi sistemi consentono di intervenire prima che prevalgano il cedimento e la rinuncia».
Analisi che trova sostanzialmente d’accordo anche il prof. Aniello Merone, ordinario di procedura civile e coordinatore del corso di laurea in giurisprudenza all’università Europea di Roma. «Per avere ottenere un risultato coerente con la crescita delle immatricolazioni – spiega – è indispensabile intervenire durante il ciclo di studi sulle cause che favoriscono l’abbandono. In questo è decisiva l’attenzione che ciascuna università pone alle esigenze dello studente, il cui percorso di apprendimento dev’essere, e rimanere, al centro del progetto».
Le soluzioni proposte dalla ministra, Cristina Messa, prevedono: una maggiore offerta formativa, interventi a sostegno delle famiglie meno abbienti e un rafforzamento del raccordo fra università e mondo del lavoro.
«Sono senz’altro due aspetti decisivi – dice Merone – credo però che sia necessario anche intervenire sul problema dei livelli di competenze e apprendimento raggiunti nei cicli precedenti, che rappresentano un aspetto centrale di dispersione implicita, mentre una progressione adeguata e ragionata delle competenze aiuterebbe anche lo studente a visualizzare un percorso di studi unitario e funzionalmente vocato al conseguimento della laurea».
Per Marinelli, oltre a interventi di tipo finanziario e fiscale che «incentivano le iscrizioni» è fondamentale che l’investimento in formazione compiuto dalle famiglie «venga ripagato».
Le università, prosegue, «devono sicuramente essere attente a raccordare i percorsi professionali con la domanda che arriva dal mondo del lavoro e farlo in tempo reale, vista la velocità con cui mutano l’economia e, di conseguenza, le competenze richieste. Allo stesso tempo, però, anche il mondo imprenditoriale dovrebbe fare uno sforzo in più. Tenere i neolaureati in stage 7/8 mesi, proporgli uno stipendio di ingresso di 1.200 euro o fare ancora delle differenziazioni basate sul genere, penalizzando le ragazze, significa spingere queste persone a trovare altre soluzioni come il lavoro nero o il trasferimento all’estero, dove i salari sono migliori e le donne guadagnano come gli uomini». Merone, da parte sua, richiama «l’esigenza di rafforzare il canale delle lauree professionalizzanti, su cui l’Italia resta fortemente in ritardo, rispetto non solo al modello della Germania, spesso evocato, ma a gran parte dei Paesi europei. Percorsi che hanno il pregio non solo di rispondere con maggiore immediatezza alle esigenze del mercato del lavoro specializzato ma di offrire allo studente un obiettivo concreto e uno sbocco occupazione tangibile».
A livello generale esiste una sottovalutazione del fenomeno della dispersione universitaria rispetto a quella scolastica su cui, sottolinea Marinelli, «si è più attenti e questo perché si tende a pensare all’universitario come a una persona autonoma, determinata e meno bisognosa di assistenza e tutoraggio, quando invece è fondamentale sviluppare, nei suoi confronti, un’azione positiva e proattiva».
Secondo Merone «il problema della dispersione universitaria rimane allarmante soprattutto perché interessa i ragazzi maggiormente svantaggiati sul piano economico e sociale. La poca attenzione sarebbe già difficilmente giustificabile ove lo si considerasse un problema del solo sistema scolastico-universitario, ma al contrario è evidente che si tratta di un’emergenza del sistema paese e della sua capacità di formazione delle nuove generazioni e costruzione di benessere sociale».
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