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L’imprenditore designer, Dino Gavina

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È con commozione che visito la mostra “Dino Gavina. L’Arte e il design” che, con intelligenza e pietas, Marco Brunori e Giovanna Coltelli hanno dedicato, nella solenne sede della Galleria nazionale d’arte moderna di Roma, a un uomo la cui influenza e la cui sensibilità furono grandi, ma che non può essere definito né un artista né un industriale, nella sua fantasiosa e libera impresa, votata, appunto, all’arte e al design. Io, che gli sono stato vicino più di altri, dagli anni Settanta fino alla morte, ricordo che amava definirsi “sovversivo”.

Lo vidi, per la prima volta, ragazzo, quando venne, nel 1976, a casa mia, a Ro di Ferrara, divenuto ora il santuario dei miei genitori, che molti hanno visto nel film “Lei mi parla ancora” di Pupi Avati, con Carlo Scarpa che stava montando a Rovigo la mostra di Mario Cavaglieri. Scarpa era del 1906, Gavina del 1922. Giovane e spiritato, mostrava sconfinata ammirazione e pura devozione per il grande architetto. Poco dopo Scarpa morì, e forse il grande affetto, fraterno più che paterno, di Gavina per me risaliva a quel memorabile incontro originario.

Gavina apparteneva a quella rara specie di uomini che riconoscono e ammirano il talento, e hanno il culto del genio. Gavina era un ricercatore di uomini, ed e’ stato il primo a far conoscere in Italia Duchamp, Man Ray, Sebastian Matta, indirizzando la loro creatività nel mondo della produzione industriale. Più difficilmente riconosceva talento e genio negli architetti con l’eccezioni di Castiglioni (Pier Giacomo) e Luigi Caccia Dominioni, che visse fino a 103 anni. Guardava con sospetto i designer di professione, imprecava contro Vittorio Gregotti e Gae Aulenti.

Era passionale, collerico, e insieme gentilissimo e delicatissimo. Esigente, anzi, intransigente. A pensare al senso della sua vita, alla scoperta di uomini, dovrei essere lusingato di aver goduto della sua amicizia e della sua benevolenza. Non si era mai occupato di arte antica, ma aveva una istintiva predilezione per Roberto Longhi, prima eccellente scrittore che critico. Aveva avuto l’opportunità di conoscere, a Bologna, i miei maestri, allievi di Longhi: Francesco Arcangeli e Carlo Volpe. Ricordo che dedicammo a Longhi una serata, nel suo cantiere creativo di San Lazzaro di Savena (dove è ora miracolosamente la Fondazione Cirulli). Ne è sopravvissuto il rarissimo libretto, da me scritto e da lui editato. Iniziò con me ad appassionarsi all’arte antica, a Piero della Francesca, ad Antonio da Crevalcore, a Ercole de Roberti, a Nicolò dell’Arca, venendo in religioso raccoglimento a vedere il mio San Domenico, miracoloso ritrovamento.

In questi arcani maestri di misteriose geometrie egli trovava gli archetipi dei suoi amatissimi maestri: Magritte, Brancusi, De Chirico metafisico . Io lo sospingevo verso i confini più lontani: i pittori del Duecento e del Trecento, Vitale da Bologna, Duccio di Buoninsegna, Maso di Banco. Ma la sua curiosità, che era stata inibita dalla mitologia delle avanguardie, dalle parole d’ordine “il faute etre absolument modern” di Arthur Rimbaud, era così libera da consentirgli di scoprire anche gli artisti più lontani da quelli con cui aveva avuto consuetudine.

Così era per lui una forma di felicità seguirmi nella caccia a Libero Andreotti, a Domenico Rambelli, a Dario Viterbo, ad Antonio Maraini. C’era in lui un entusiasmo straordinario , il piacere delle scoperte, cui, miscelandole con i suoi miti, aveva dato spazio nella ”rivista arbitraria di cultura” Novalis, a periodicità discontinue. Cioè quando ne avevamo voglia. C’era in lui un entusiasmo fanciullesco, irrefrenabile. Così, esaltati dal monumento a Francesco Baracca nella sua Lugo di Romagna, facemmo fondere il gesso della statua ad Alfredo Oriani, mai realizzata, a Faenza. La inaugurammo, in una giornata memorabile, con Lucio Dalla. Dino era felice di questo nuovo mondo antico che gli si apriva davanti.

Tante cose potrei raccontare del nostro lungo sodalizio, ma voglio ricordare il ponte che egli fece tra una felice formula di Roberti Longhi: il “genio degli anonimi” e la sua consapevolezza che il design era sempre esistito, frutto di quello stesso genio. Così concepimmo assieme una mostra per Palazzo Reale a Milano, perché noi viviamo circondati di oggetti d’uso perfetti di cui non conosciamo gli inventori, e che sono essenziali e fondamentali per la nostra vita: chi ha creato la ruota, il bicchiere, il coltello, la forchetta, gli occhiali, il chiodo, il martello, la sedia a sdraio, il cacciavite, il tappo corona, il tappo di sughero? Architetti e designer si affaticano non riuscendo a trasformarli e a migliorarli. Il chiodo e lo spillo non si possono perfezionare, vivono con noi, ci sono essenziali, anche quando, come l’orinatoio di Duchamp, qualcuno lo fa diventare suo, cambiando il senso dell’arte e della storia.

Il genio di Gavina è nell’aver compreso la forza e la necessità delle cose, degli oggetti, più semplici. Esattamente come i sentimenti. È bello oggi ricordarlo e onorarlo, eternamente vivo.


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