Simboli elettorali dei partiti italiani
4 minuti per la letturaTutti i riflettori sono puntati sul duello fra Grillo e Conte e di conseguenza su ciò che ne sarà dei Cinque Stelle. Restano così in un cono d’ombra i problemi degli altri partiti che in parte non dipendono dal risultato di quello scontro, ma in parte anche sì.
Non dipende sicuramente il centrodestra, che i sondaggi danno fra il 42 e il 48%. Non abbastanza per essere sicuro vincitore nella prossima competizione, non fosse che il 52% -58% che sta fuori di quell’area è così frammentato da non costituire al momento una reale alternativa. Il vero problema della situazione attuale è infatti esattamente questo: di veri blocchi in grado di competere senza problemi per la conquista del futuro governo non ce ne sono.
Anche quello sicuramente meno frammentato, cioè il centrodestra del trio Salvini-Meloni-Berlusconi (Toti col suo movimento è per adesso stimato intorno all’uno per cento), non è esattamente compatto e soprattutto non riesce a riconoscersi in una sola leadership (personale o collettiva). Può sempre sperare di espandersi conquistando quel 10% circa che gli servirebbe per attestarsi tranquillamente come la coalizione vincente, ma farà fatica a farlo perché FdI da un lato cresce, ma lo fa sottraendo voti alla Lega, mentre dall’altro è un ostacolo alla conquista dei voti che vanno ai partiti di centro poco vogliosi di farsi assorbire da una formazione che non riesce a staccarsi da una cultura nostalgica dell’estremismo nero (e a volte anche da certi suoi personaggi).
Ovviamente c’è chi sta peggio ed è il PD. E’ rimasto per vari aspetti l’ultimo partito che ha una componente di “competenti” che sanno fare politica a livello parlamentare, ma anche regionale e comunale. Lo si vede bene nella recente presentazione di una proposta di riordino dei regolamenti parlamentari: assai apprezzabile per la capacità di individuare molte criticità che strozzano il buon funzionamento della Camera e in parte del Senato, ma ovviamente cosa per “addetti ai lavori” che non colpisce la fantasia dei normali cittadini. Dovendo muoversi anche su quel fronte il partito del Nazareno inclina per i temi alla moda, che però deve colorare accentuatamente “di sinistra” perché così impone un certo modo di pensare fra gli opinion leader, anche se sarebbe tutto da dimostrare che tali siano davvero.
Testimonia questo cima il recente dibattito su una presa di posizione, davvero poco felice, del vice segretario Provenzano e dei suoi amici contro presunti economisti “liberal-liberisti” rei di non capire che è tornato il momento di mettere l’iniziativa economica in mano allo stato. Ora il rilievo è un poco bizzarro nel momento in cui a reggere lo sforzo verso lo sviluppo sarà il PNRR, cioè una iniziativa strutturalmente in mano al potere statale e alle sue articolazioni. Se nelle sedi di consulenza sono stati chiamati anche studiosi inclini a considerare le virtù del libero mercato, si potrà parlare al massimo di una moderazione degli appetiti statalisti che tendono ad esaltarsi un po’ troppo.
Tuttavia gli episodi ricordati sono solo una delle tante facce della crisi di indirizzo che interessa il PD, che da un lato vorrebbe essere il miglior alleato di Draghi e dall’altro non sa cosa fare coi Cinque Stelle che non riescono ad avviare una seria riflessione sulla loro ristrutturazione. Qui il problema non è tanto vedere come risolveranno la questione al vertice, se con una qualche forma di diarchia o con il ritorno di un monarca assoluto, bensì constatare come non riescano ad accettare di aver fatto un buon numero di leggerezze (chiamiamole così) quando facevano il bello e il cattivo tempo al governo.
Ben poche delle loro riforme reggono. Paradossalmente quella che ha fatto meno danni è il reddito di cittadinanza, che in sé ha almeno tamponato una parte della crisi sociale durante la pandemia (i soldi buttati nei navigator e nel vertice dell’ANPAL sono un altro paio di maniche). Il resto è stato quasi tutto frutto di illusioni. Basta vedere ora la questione del cash back. Era stato inventato credendo che così si sarebbero azzerati i pagamenti in nero nel commercio e si è visto che non ha funzionato, ma ora che il governo ha proposto di abolirlo evitando di buttare soldi per beneficare chi si attiene alle leggi senza colpire quelli che vi si sottraggono, ecco che subito scattano le difese identitarie. La stessa cosa sta succedendo con le riforme di Bonafede sulla giustizia, mentre su partite come quella di Autostrade abbiamo visto come è andato a finire il mantra del “niente soldi ai Benetton”.
Ora il PD non può continuare a chiudere gli occhi su questa incapacità dei Cinque Stelle, incluso il loro leader in pectore, di fare i conti con le loro illusioni. Non per questioni di astratta teoria politica, ma per la fondamentale ragione che se non ridimensiona M5S non riuscirà nell’operazione necessaria per acquisire consensi nelle aree del riformismo (preferiamo questa dizione a quella equivoca di “centro”). PD+M5S fa, ben che vada, fra il 35 e il 38%. Mancano minimo 12 punti per almeno sfiorare la maggioranza. E’ vero che in quelli ci sta l’estrema sinistra, che però al massimo viene stimata al momento sul 3%. Gli altri consensi li deve trovare nella tradizione forte del riformismo italiano che è tradizionalmente e giustamente poco incline a consegnarsi nelle mani degli utopisti, accademici e non.
Il Pd questo tema deve affrontarlo, sia come problema di equilibri interni sia come problema di alleanze verso l’esterno. Prima lo fa, meglio sarà per lui.
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