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Enrico Letta e Giuseppe Conte

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NON c’è tranquillità fra i due partiti maggiori del centrosinistra (gli altri, se esistono al di là dei loro leader, sono al momento irrilevanti). Il PD vede un ritorno alle retoriche di vecchia marca PCI e Letta non fa nulla per quanto meno inquadrare questo dibattito. I Cinque Stelle sono sempre inchiodati alla scelta se rimettere insieme il partito di Grillo o virare decisamente verso il partito di Conte (o magari fare qualcosa di diverso da entrambi. Sperando in Di Maio?).

Nel PD assistiamo ad un attacco che vorrebbe essere “da sinistra” contro le politiche economiche di Draghi e ad un rilancio da parte del solito Bettini del progetto berlingueriano del blocco dei progressisti. Da un lato il vice segretario Provenzano e l’ex consigliere economico di Zingaretti, il prof. Emanuele Felice, lamentano la presenza di accademici “liberali” come consulenti del governo, sembra di capire perché a loro giudizio questo sarebbe pregiudizievole per politiche keynesiane di uso della spesa pubblica. L’antiliberalismo è un vecchio vezzo della sinistra, che aveva trasmesso in anni ruggenti anche alla sinistra cattolica. Ci permettiamo di ricordare che Keynes non solo era un liberale, ma lo rivendicava. Dunque il problema non è genericamente stabilire anatemi contro una definizione, ma semmai confrontarsi su scelte politiche concrete.  

Se i consulenti oggetto di sospetto a priori propongono o proporranno soluzioni sbagliate, li si confuti nel merito, dimostrando che le proprie sono migliori e servono meglio a risolvere i problemi del paese. Qualsiasi dibattito di questo tipo fa fare progressi, gli anatemi sulle etichette sono roba da Terza Internazionale e non servono a nulla. Dall’altro lato curiosa, ma rivelatrice è l’intervista di Bettini al Corriere dove per sostenere la bontà di una linea politica che imbarcherebbe oltre ad M5S un non meglio identificato mondo di centro moderato rinvia alla metà degli anni Settanta quando secondo lui la sinistra a tendenziale guida PCI avrebbe inglobato anche un po’ di cattolici raccogliendo altrettanti consensi di quelli delle destre.

Ora a ragionar così nelle destre si mette anche una quota del mondo cattolico che con Moro ed altri stava nella DC, a rigore ci si infilano anche quei socialisti che con Craxi si sottrassero proprio allora al progetto di Berlinguer (e anche lì stava una piccola pattuglia di cattolici). Non è un caso il riconoscimento postumo di Bettini a La Malfa che certo quella prospettiva Berlingueriana condivideva e che per questo ce l’aveva con Craxi (leggere le memorie di Antonio Maccanico), sebbene troviamo volgare prenderne spunto per un attacco a Calenda (ma, si sa, ci sono le elezioni a Roma …). Se il PD si farà trascinare in queste retromarce non farà molta strada, tanto più che la sponda dei Cinque Stelle appare ancora avvolta nelle nebbie.

E’ abbastanza chiaro che siamo di fronte alla scelta se si potrà andare avanti nel mettere Conte alla testa del partito di Grillo o se si consentirà a Conte di farsi un suo nuovo partito grazie alla cessione del marchio e di un po’ di truppe del partito di Grillo. Alcune affermazioni recenti dell’ex premier sembrerebbero far presagire la seconda soluzione. Andare alla caccia del voto “moderato” per tentare almeno di essere il partito di maggioranza relativa è compatibile con le modalità con cui Conte ha gestito il suo secondo governo (molta attenzione e sponda con tanti settori dell’establishment, molta comunicazione “piaciona”), ma non lo è con il mantenimento del DNA grillino.

Naturalmente l’assoldare un gruppo dirigente storico che se sbattuto fuori dalla politica non saprebbe dove andare (Crimi, Bonafede, giusto per citare due nomi molto gettonati in questo momento) può servire da foglia di fico per coprire il vero orientamento di questa operazione. L’incognita è se Grillo potrà prestarsi all’operazione.

Qui il tema è uno solo: bisognerebbe sapere se ha abbastanza forza ed energia per rilanciare il movimento da capo, se ne ha i mezzi, se è libero da scheletri nell’armadio che potrebbero essere usati per azzopparlo. Ribaltare situazioni di declino di un certo progetto iniziale che ha marciato velocissimo col vento favorevole di certi sbandamenti dell’opinione pubblica non è mai un’operazione semplice: ricordarsi che non è riuscito a Berlusconi, che quantomeno “i mezzi” li aveva, ma che in presenza degli altri due condizionamenti non è riuscito nell’impresa ed ha dovuto accontentarsi di un ruolo minore.

L’evoluzione politica a cui stiamo assistendo potrebbe essere guardata come tutto sommato salutare per ridefinire un quadro che fatica a reggersi, non fosse che arriva in un momento assai delicato. Dobbiamo varare le prime iniziative del PNRR e già stiamo vedendo come la situazione delle forze politiche impatti in modo non positivo su questo passaggio: basterà riferirsi all’impasse in cui rischia di finire la riforma della Giustizia a cui lavora più che meritoriamente la ministro Cartabia. Avremo da affrontare l’elezione del successore di Mattarella, altro tassello di grande importanza per garantire non solo stabilità al sistema (e già non sarebbe poco), ma soprattutto coesione al Paese e identificazione negli obiettivi della nostra seconda ricostruzione.

Ce n’è abbastanza per sperare che si abbandonino da parte di tutti le nostalgie per le rimpiante, vecchie battaglie pseudo ideologiche del buon tempo andato e ci si concentri sulla risposta che si può dare alla domanda di futuro che sale dalla gente.


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