Nicola Acri detto "Occhi di ghiaccio"
4 minuti per la letturaCOSENZA – Di lui si diceva fosse un cecchino formidabile, ambidestro e in grado di sparare con due pistole contemporaneamente senza mancare mai il bersaglio. C’è stato un tempo in cui trovarselo davanti armato fino ai denti equivaleva a morte sicura, ma la leggenda oscura di Nicola Acri, 41 anni da Rossano (Cosenza) potrebbe essere giunta ormai al capolinea.
L’uomo, detenuto da dieci anni in regime di 41 bis, collabora con la giustizia già da alcuni giorni (LEGGI L’ANTICIPAZIONE DATA DAL QUOTIDIANO), circostanza ufficializzata ieri in aula durante un processo per omicidio – uno dei tanti – che lo vede ancora imputato in Appello. Il suo pentimento sembra già destinato a lasciare il segno in termini investigativi perché, a dispetto dell’età, vanta un curriculum criminale di tutto rispetto che già all’età di vent’anni gli ha consentito di diventare boss della sua città d’origine.
Non a caso, proprio lui era a capo di quella ’ndrina rossanese che, al pari delle famiglie di Corigliano, Castrovillari e altri centri minori, ha sovrinteso per anni ai traffici illeciti a cavallo tra la Sibaritide e il Pollino. Anche lui, come gli altri, dipendeva dal clan degli zingari di Cassano allo Ionio a sua volta benedetto dal Crimine cirotano, una consorteria che dalla fine degli anni Novanta si fa largo lasciandosi appresso una lunga scia di sangue, frutto di diverse guerre combattute con le famiglie rivali per ottenere il controllo del territorio.
È in quel contesto che la stella di Nicola Acri comincia a brillare di luce sinistra. Lo chiamano “Occhi di ghiaccio” che nel suo caso non è solo un tratto somatico, ma uno specchio dell’anima. Secondo diversi pentiti c’è quasi sempre lui in prima linea laddove c’è un’azione di fuoco da compiere e ancora loro, quelli che lo hanno preceduto nella diserzione, rievocano il momento esatto in cui assurge al ruolo di boss. Accade in un uliveto di Cassano, un posto in cui secondo Gianpiero Converso «chi vi mette piede non fa più ritorno». È in quel ruolo spettrale che, nel 2000, Francesco Abbruzzese alias “Dentuzzo” lo avrebbe promosso caposocietà. A quel tempo ha solo ventuno anni, ma meriti criminali a volontà.
«Mamma come spara Nicola» è l’intercettazione ambientale carpita pochi mesi prima nell’auto di un picciotto, Antonio Benincasa detto “Vallanzasca” che prima di essere inghiottito dalla lupara bianca sostiene di averlo visto in azione. E ne parla ammirato. Non sfugge alle maglie della giustizia, ma le sue peripezie processuali coincidono spesso e volentieri con le cronache di altrettante assoluzioni. L’omicidio Viola, l’inchiesta “Tamburo”, la strage di Strongoli (quattro morti), il delitto Converso, sono solo alcuni dei filoni d’indagine che ne segnano il coinvolgimento prima di ogni sua puntuale uscita di scena.
«Ogni volta i collaboratori di giustizia raccontano sciocchezze nuove su di me, tirandomi in ballo in cose di cui non sono proprio a conoscenza» minimizza il diretto interessato. Basso profilo, la cifra del suo successo unitamente ai soldi. Nicola Acri ne ha tanti da investire e le inchieste degli anni successivi – “Stop” fra le altre – documentano la scalata imprenditoriale del suo gruppo che, fra le altre cose, riesce anche a imporre una marca di caffè a quasi tutti i commercianti della zona, esportandola anche nel Nord Italia.
Figlio di gente perbene – papà carabiniere e mamma insegnante di religione – ha trascorso l’infanzia a giocare nei cortili delle caserme; nessuno avrebbe mai immaginato che il 2007 lo avrebbe “premiato” come uno dei gangster più influenti e pericolosi in circolazione. Quello però è anche l’anno in cui la sua buona stella comincia a tramontare. Sfugge all’ennesimo mandato di cattura e inizia un lungo triennio di clandestinità, a cavallo tra lo Jonio e la Sila e con puntate all’estero. Sospetti non confermati lo vogliono in Repubblica Ceca impegnato in un traffico di armi, poi in Emilia Romagna a curare i suoi interessi imprenditoriali. È lì, in un centro commerciale alla periferia di Bologna che finisce la sua corsa. Dopo l’arresto, arrivano i processi seguiti stavolta dalle condanne all’ergastolo, alcuni definitivi altri ancora in sospeso.
Sprofonda nel gorgo del 41 bis dal quale tenta di riemergere ritagliandosi un profilo mediatico. Si professa innocente, querela a più riprese i pentiti che lo accusano, poi dieci anni dopo si arrende. Almeno così pare. Quando i carabinieri del Ros gli piombano addosso, mentre se ne va a spasso per negozi insieme alla famiglia, nella sua villetta nascondiglio di Castel Maggiore rinvengono un vero e proprio arsenale con l’aggiunta di esplosivo. Tanto esplosivo, una quantità così ingente da far sobbalzare persino Nicola Gratteri. «Mezzo chilo di plastico, per intenderci, equivale a cento chili di tritolo. E a Bologna ne sono stati trovati tre chili!» dichiara alla stampa l’allora procuratore aggiunto di Reggio Calabria. «Bisogna chiedersi a cosa serviva. Non credo per azioni di fuoco a Bologna. Era destinato alla Calabria. Poteva essere usato per mettere a segno un attentato».
Per uno scherzo del destino i due si ritrovano oggi faccia a faccia e – va da sé – potrebbe essere stata proprio questa la prima domanda rivolta dall’attuale procuratore di Catanzaro al neopentito. Solo un segreto, uno dei tanti, custodito per più d’un decennio sul fondo di due occhi azzurri gelidi e inanimati.
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