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L'istituto Spallanzani

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Come complicare la vita al generale Figliuolo e continuare a litigare su qualsiasi cosa. L’ultima disputa è sulle seconde dosi di vaccino da somministrare agli italiani in vacanza. Se ne parla ipotizzando diverse soluzioni, non tutte gradite ai governatori. Prima fra tutte la possibilità del “richiamo” per chi soggiorna per almeno 3 settimane in un domicilio temporaneo. Spingono in questa direzione i presidenti della Liguria e del Piemonte, Giovanni Toti e Alberto Cirio che hanno firmato “un protocollo di reciprocità vaccinale in ambito turistico”. 

Se vieni dal Piemonte ti vaccino e viceversa, insomma. E gli altri? Pugliesi, toscani, umbri, calabresi, laziali, etc, etc? Non si sa. È una strana idea di salute pubblica, applicata a macchia di leopardo a seconda di dove sei o da dove vieni. Idea rilanciata ieri dal sindaca di Riccione, Renata Tosi ma trasferita su un piano, per così dire, immobiliare. A chi la seconda dose? Ai 6mila vacanzieri che hanno qui la seconda casa, possibilmente con affaccio sulla costa romagnola, verrebbe da aggiungere.

Chi ha ragione? Chi ha torto? Nessuno, Perché alla base c’è un problema: le regioni non si scambiano tra loro le informazioni. Manca, sebbene prevista da un decreto legge, una unica anagrafe nazionale vaccinale. A ricordarlo ai presidenti delle Regioni è stato ieri il direttore sanitario dell’Istituto sanitario Spallanzani di Roma. «Qui non si tratta di fare i capricci ma di organizzare il sistema sanitario in direzione della centralità della persona – ha detto il professor Francesco Vaia, intervistato da un’emittente radiofonica (Rtl) – trovo stucchevoli le polemiche tra le Regioni, dobbiamo trovare un punto di incontro, facciamo un accordo, scambiamoci le anagrafe regionali, nulla è impossibile».

IL DS DELLO SPALLANZANI «BASTA CAPRICCI, SERVE ACCORDO»

Il professor Vaia ha toccato il nodo della questione. Il vulnus che rende impraticabile al momento le vaccinazioni in alta quota o sotto gli ombrelloni. Con la sanità concepita così com’è, frammentata e divisa in 20 governi locali, per una regione diversa da quella di residenza siamo tutti dei perfetti sconosciuti.

Eppure, l’anagrafe nazionale dei vaccini (Avn) con tanto di specifiche funzionali ci sarebbe: classi di rischio, sito di inoculazione, modalità da regione a regione, via di somministrazione, tipologia dell’erogatore. Un documento previsto dal ministero del ministero della Salute, in attuazione del decreto legge del 17/08/2018 rimasto una scatola vuota. Soggetti vaccinati; soggetti da sottoporre a vaccinazione, soggetti per i quali le somministrazioni possono essere omesse o differite; dosi e tempi di somministrazione ed eventuali effetti indesiderati. Ma per qualche oscura e imperscrutabile ragione tutto è fermo.

Le notifiche effettuate dal medico curante, la scheda dello stato vaccinale e l’insieme delle informazioni utili che avrebbero dovuto finire nella rete nazionale di farmacovigilanza, le condizioni che attestano l’esonero o il differimento, persino i decessi non sono confluiti in un unico network sanitario ma ogni regione si gestisce vaccini e vaccinati in proprio. Le informazioni che secondo logica avrebbero dovuto connettere la comunità scientifica con il Sistema Avn non vengono condivisi.

L’EX MINISTRO LORENZIN «VANE TUTTE LE INTERROGAZIONI»

«Quel decreto non è mai stato operativo e a nulla è valso presentare interrogazione su interrogazioni su questo argomento – punta il dito contro l’inerzia delle regioni Beatrice Lorenzin, ex ministro della Sanità – senza una anagrafe nazionale dei vaccini è impensabile immaginare oggi una delocalizzazione». Perché non è mai stata fatta? «Ogni volta speriamo che sia quella buona – riprende la Lorenzin, che ora siede in Parlamento come deputata Dem – non si è riusciti a fare il salto che sarebbe stato necessario e che il decreto prevedeva. Un meccanismo nazionale che ci avrebbe consentito oggi di gestire le vaccinazioni in tempo reale anche per chi è in vacanza». E ora? «Ora si sta facendo di tutto per complicare la vita a povero Figliuolo ma anche ai cittadini. L’ho sperimentato di persona quando mia zia, residente a Firenze ma ospitata da mia madre, ha dovuto cambiare il medico di base per potersi vaccinare a Roma».

Nell’era degli algoritmi al potere il registro unico delle vaccinazioni resta un miraggio. E tale resterà anche dopo l’istituzione del green pass, il patentino che ci consentirà di girare liberamente in Europa. Non agevolerà di un millimetro le regioni nella gestione amministrativa e sanitaria.

IL CODICE IDENTIFICATIVO

Dal codice identificativo dell’assistito si potrebbe risalire alla Regione, alla Asl di competenza, al Comune di residenza, alla scheda vaccinale e completare quel lento lavoro di assimilazione che fa dell’epidemiologia una scienza. Vale per le vaccinazioni obbligatorie previste per i bambini e potrebbe valere anche per quelle contro il Covid. Un tracciamento che consentirebbe la mobilità vaccinale in piena sicurezza.

Dal gennaio 2021 un successivo decreto legge ha previsto che l’Anagrafe nazionale dei vaccini venga alimentata giornalmente dalle Regioni e Province autonome con i dati relativi alle somministrazioni di massa dei vaccini anti-Covid 19, dati che vengono successivamente trasmessi all’Istituto superiore di sanità per le attività di sorveglianza immunologica e di farmacoepidemiologia. I dati vengono però diffusi solo in forma aggregata e anonima nel rispetto delle normative sulla privacy. L’unico dato che le regioni condividono per aggiornare il countdown regione per regione ma inutilizzabile ai fini di una diversa gestione sanitaria.

Neanche una corretta interpretazione dell’articolo 117 della Costituzione, la previsione che lo Stato abbia la legislazione esclusiva in materia di profilassi internazionale, è riuscito a mutare lo scenario in cui si muove il nostro Paese. Un’epidemia mondiale richiede l’adozione di misure straordinaria ma le nostre 20 regioni non sono in grado neanche di condividere le stesse informazioni.

«Il servizio sanitario è nazionale ma manca “una catena di comando», ha sostenuto di recente il professore Sabino Cassese, giudice emerito della Corte costituzionale. Le divergenze tra le regioni prefigurano, secondo il professore, una chiara «violazione dell’articolo 120 che prevede la tutele dell’unità giuridica ed economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni». Venti governo “locali” che si tengono strette le loro tecnocrazie sanitaria, la via  all’immunità di gregge in una regione sola. Una liturgia trita e ritrita di federalismo alla matriciana.

FONTANA: IL RICHIAMO? I LOMBARDI TORNINO A CASA

Ma dicevamo dei presidenti. Sul vaccino in vacanza Giovanni Toti e Alberto Cirio, governatori rispettivamente di Liguria e Piemonte, hanno già stretto un patto d’acciaio. Luca Zaia, loro omologo veneto, è rimasto spiazzato. «Penso che quella dei miei due colleghi sia una cosa giusta, pensata su misura per due realtà di quella dimensione turistica ma altre regioni hanno bisogno del vaccino in vacanza perché hanno altre dimensioni: la nostra con 72 milioni di presenze, di cui il 67% di stranieri, è la prima».

Ergo: serve una decisione nazionale. E in attesa che anche il Sud si faccia sentire, anche il presidente della Lombardia Attilio Fontana ha voluto dire la sua: «I lombardi che dovranno ricevere la seconda dose nel periodo delle vacanze dovranno tornare a casa», ha chiuso, tassativo, qualsiasi ipotesi di somministrazione fronte-mare. E pensare che il suo ex assessore Giulio Gallera era stato cacciato per non aver voluto richiamare dalle vacanze i medici a Natale.


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