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Una manifestazione del centrodestra a Roma

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La politica torna alla difficoltà dei rapporti fra governo e regioni. Sembra davvero una commedia all’italiana che mentre non si riesce a capire come venire a capo della mancanza di copertura per una quota non proprio piccola di fragili e anziani, si vedano presidenti di regione intenti ad inventarsi proprie strategie (parola non solo grossa, ma inappropriata) per intervenire in questo a quel settore a loro dire interessante: vaccini ai turisti, isole covid-free, maturandi vaccinati, e varie altre fantasie.

Giustamente il commissario Figliuolo richiama alla necessità di muoversi in maniera coordinata, ma è esattamente quel che i “governatori” non vogliono: mettere in discussione il loro ruolo presso le opinioni pubbliche di riferimento.

In fondo, qualsiasi cosa succeda, il nodo della nostra politica rimane sempre lì: quel che interessa a ciascuno è una manciata di minuti alle TV e una manciata di righe sui giornali. Per ottenere questo la regola è ferrea, perché bisogna inventarsi qualcosa di bizzarro e che non vada oltre una frasetta, uno slogan abbastanza breve per essere colto al volo e per impressionare gli ascoltatori.

Naturalmente questo andazzo non giova alla costruzione di larghe intese, per quanto dialettiche possano essere. Si determina invece un gorgo perverso: si lavora per inseguire il consenso, ma la gente si sente sempre meno coinvolta nella politica parolaia e di conseguenza ciascuna componente massimizza quel tanto di consenso che arriva dai militanti duri e puri, convinta che così si testimoni la sua presa sulla società civile, mentre contribuisce ulteriormente ad allontanarla.

Il fenomeno è platealmente evidente nella vicenda delle elezioni amministrative d’autunno. In vista di queste i partiti cercano di incrementare il loro appello a ciò che ritengono particolarmente identitario, mentre tutti faticano a trovare, salvo limitatissime eccezioni, personalità di spessore disposte a candidarsi a sindaco. Ci si rifugia in spiegazioni che puntano su fattori estrinseci, che ci sono, ma che ci sono anche sempre stati senza che in passato fossero ostacolo alla presenza di candidature di rilievo: un sindaco ha una retribuzione modesta rispetto all’onere a cui si sobbarca e deve affrontare il rischio di finire nei vari tritacarne giudiziari del nostro sistema impazzito (civilistico, penalistico, della Corte dei Conti).

Il problema maggiore è che in realtà oggi un sindaco, pur avendo una investitura popolare diretta, non ha alcun potere di controllo sulle maggioranze su cui deve per forza appoggiarsi. Ogni componente è più che altro una agenzia per chiedergli di darle spazio ai suoi interessi di parte a scapito di qualsiasi visione generale, cioè di quello su cui poi un sindaco verrà giudicato dai suoi amministrati.

Di questo clima si rende conto chiunque osservi la dinamica con cui le “coalizioni” hanno scelto o cercano di scegliere i loro candidati alla vigilia di una campagna elettorale che dovrà misurarsi, oltre che con la scarsa attenzione di un pubblico alle prese con l’uscita sperata dall’incubo Covid, con una pausa estiva che certo non è momento propizio per le mobilitazioni politiche.

Né nel centrosinistra, né nel centrodestra c’è alcun discorso di strategia complessiva, non diciamo a livello nazionale (una volta c’era almeno un qualche tentativo di individuare dei “modelli” di governo locale), ma neppure a livello delle varie città. Se nei vertici nazionali si discute su come gestire la campagna in funzione del governo attuale (magari con qualche fantasia su quello futuro), a livello cittadino è tutta una lotta di fazioni e di tribù che cercano di far pesare il loro pugno di voti (spesso più millantato che esistente) per affermare preventivamente i loro poteri di condizionamento rispetto alle scelte future.

Così sul versante del centrodestra si passa dall’annuncio di un vertice a quello di un vertice successivo, curiosamente pretendendo di essere nelle migliori condizioni per vincere facile. Ma se fosse così, come mai non si riesce a stringere su nulla? Banale dire che ogni componente della coalizione vede nella prova d’autunno la premessa al posizionamento che spera le tocchi nel futuro (anzi futuribile) governo in arrivo dopo le elezioni nazionali (quando saranno). L’interesse delle città, che fra il resto giocheranno un loro ruolo nell’impiego dei fondi del PNRR, è l’ultimo dei pensieri.

Quanto al centrosinistra, ammesso che abbia ancora un senso usare questo termine, siamo più o meno al rompete le righe. I Cinque Stelle sono un ectoplasma inafferrabile, la cui strategia politica semplicemente non esiste a meno che non si riduca a fare un po’ di scena per convincere che sono in vita. Il PD nazionale segue più o meno le fibrillazioni delle sue componenti locali, perché non è in grado di richiamare nessuno all’ordine. Cerca di cavarsela rimettendo tutto al mito delle primarie, salvo poi stupirsi che queste si riducano a guerre per bande, infiltrate dalla necessità di ciascuna di queste di raccattare a qualsiasi prezzo truppe di ascari che però impongono condizioni e limitazioni.

Temiamo di essere giunti al punto in cui non c’è che da aspettare che passi questa nottata delle elezioni d’autunno. Forse, se, come è possibile, facessero toccare ai partiti la stanchezza della società verso i loro vertici e quadri, si potrà dopo riprendere un discorso politico più sensato.


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