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Vittorio Sgarbi e Luciano Ventrone

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Sono stato l’ultimo a celebrare Luciano Ventrone, pittore dell’iperbole, al Mart di Rovereto, a margine della mostra “Caravaggio, il contemporaneo”. A fianco di una delle nature morte della serie attribuita da Federico Zeri a Caravaggio (e oggi indirizzate verso il maestro di Hartford), alcune opere di Ventrone indicavano una continuità di ispirazione, piuttosto che una citazione, dal grande maestro barocco.

Quella concentrazione, quella sospensione, quel silenzio proprio della contemplazione o del desiderio di assoluto, erano la cifra della ricerca di Ventrone. Fotografico e iperrealista per alcuni, Ventrone cercava una essenza luminosa, sostituendo la luce del giorno con una luce artificiale di metafisica evidenza. Difficile infatti definirlo neobarocco. Ventrone dipingeva anche superando le umane potenzialità sensoriali, nella notte della critica. Così Caravaggio poteva rimanere un alibi, giacché sarebbe improprio definire Ventrone “caravaggesco”.

Lo ritroviamo ora ad Urbino, in Palazzo Ducale, a far sentire la sua ideale adesione alla “divina proportione” di Luca Pacioli. Per lui una occasione perduta, per noi una conferma. Ultimo dei pittori moderni della realtà, dopo Sciltian e Annigoni, Ventrone si misura con la fotografia ad alta definizione, superando una lunga interdizione e il divieto delle avanguardie negli anni della sua formazione, ad ogni forma di figurazione. Agli inizi degli anni Ottanta lo soccorrono, come fenomeno spettacolare, Federico Zeri e Antonello Trombadori. È l’avvio di un trionfo.

Il suo obiettivo è una placata meraviglia che renda apparentemente semplice quello che è straordinario nell’ordine imperturbabile della mente.

Ventrone è un artista contemporaneo che realizza opere che le persone vengono a vedere perché vogliono meravigliarsi. Ha saputo affermarsi come grande maestro nella figurazione, con un virtuosismo eccezionale. Ventrone sembra cercare l’assoluto, in una essenza, che, nell’opera, accresce la realtà, non si limita a riprodurla. E di più. Ventrone è il pittore dell’iperbole. E iperboliche, esagerate, barocche appunto, sono le sue opere, piuttosto che iperrealistiche.

Ventrone esagera, perfeziona il reale, anche nelle sue imperfezioni. E ci costringe a fare i conti con immagini che non ci avrebbero, al di fuori della sua interpretazione, interessato. Esercizi spirituali, o anche, illusioni. Grandi illusioni.

La luce si mette al servizio dell’oggetto e, attraverso il riflesso, diventa materia, sostanza integrante di ciò che illumina. È la luce immanente, luce che sta dentro le cose, che proviene da esse. È la luce-materia che rimanda alle origini dell’arte italiana prospettica, a Piero della Francesca, ovvero al concetto neoplatonico di luce come emanazione, come contenuto della forma-idea, come fattore strutturale e decisivo della harmonia mundi.

Per capire quelli che non capiscono Ventrone, giudicandolo illustrativo o fotografico, bisogna retrocedere a un pregiudizio estetico, dentro il quale gli strumenti di comprensione si riducono fino ad annullarsi, lasciando gli scettici ai margini di un deserto di cui non conoscono l’estensione, e che è più ampio dello schema elementare antico/moderno. Il difetto di prospettiva storica non li fa riflettere sulla natura dell’arte che, da sempre ,si ripiega su se stessa per trovare nuove energie. Da qui deriva la essenza stessa del Ri-nascimento e del Neo-classico. Così come, più tardi, del Post-moderno.

Nella valutazione della Storia di molti, c’è un equivoca idea di progresso, secondo la quale l’esperienza artistica avanza producendo opere sempre nuove, seguendo un fantomatico “spirito dei tempi”. Uno schema che impedirebbe di comprendere, fra gli altri, Canova o Ingres. E che trascura di considerare che, nel lessico degli storici e nella periodizzazione dei movimenti artistici, quando si parla di “primitivi” si intendono autori come Giotto, Duccio di Boninsegna Sassetta. Primitivi, artisti così sofisticati ? Come si spiega?

È semplice. Perché vengono prima. Lo aveva bene interpretato Gino De Dominicis, apparentemente lontanissimo dal suo coetaneo Ventrone, che considerava noi i vecchi rispetto a quelli venuti prima di noi, e dunque più giovani. C’è un avanti e un indietro, un moto progressivo e una stasi regressiva, perché l’arte non ha regole, nonostante alcuni ingegni come Masaccio e Caravaggio la spingano molto avanti, con una terapia intensiva. Per uno che avanza cento restano indietro, e hanno pure diritto di esistenza, senza essere geni rivoluzionari. Così, a fianco di Masaccio, c’è Masolino, più delicato ma non retrogrado.

E, dopo Caravaggio, c’è Sassoferrato, che si ispira al Bello ideale di Raffaello, ma non torna indietro: procede, suo malgrado. In arte non ci sono solo gli innovatori: altrimenti Angelo Morbelli o Giovanni Boldini non sarebbero artisti perché percorrono una strada diversa da quella dei futuristi e delle avanguardie.

Così Antonio Donghi rispetto a Morandi. Ma anche Morandi rispetto a Balla. L’arte non ha una sola direzione, né un punto di arrivo. Non ci spiegheremmo, per stare in America, Edward Hopper o Grant Wood, artisti di incommensurabile modernità, nonostante l’ingomprante presenza di Pollock. O, per tornare in Europa, Balthus e Lucien Freud, dopo Mondrian.

Non tutti gli artisti sono rivoluzionari o geni; e certamente Luciano Ventrone, come Andrew Wyeth, non ha preteso di cambiare il corso della storia dell’arte, ma semplicemente di vedere riconosciuto quel diritto di esistenza che qualche dogmatico gli nega, nel fanatismo modernista che non consente spazio a chi non si iscrive al corso di sovversione, interpretando forme e visioni nuove. Perché è vero che, in arte, “dire è trasgredire”, ma questo non impedisce che qualcuno continui a ripetere parole già dette, in modo originale o personale.

I critici si devono rassegnare: l’arte non è come la vogliono loro, ma come gli artisti, a loro modo, la interpretano. Il critico deve prenderne atto. E godere come un’anima semplice. Veltrone voleva trasmettere il piacere.


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Fabio Grandinetti

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