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ADESSO capisco perché l’ultimo giorno, all’uscita da scuola, una madre è svenuta. Un’insolazione, dicevano alcuni, ma il sole non c’era, erano i pomeriggi invernali di giugno. I crostacei, il sushi, il botox, la dieta, la pagella del figlio, all’improvviso eravamo tutti investigatori, medici, confessori. Lei si è riavuta, ha bevuto un po’ d’acqua nel bicchierino di plastica della mensa, ha abbracciato la maestra e se n’è andata, con il bambino per mano, schivando la nostra curiosità.

Ora, da un treno scassato pieno di venditori ambulanti e madri pendolari che tornano dal mare la mattina all’alba, vedo con chiarezza: era svenuta per il terrore di questi tre mesi di vacanza, era svenuta per il pensiero di tutti i soldi che avrebbe speso in giornalini, dvd e animatrici, era svenuta pensando a tutti i favori che avrebbe dovuto chiedere a sua madre (che, come ogni madre, avrebbe trovato il modo di farglielo pesare, o di rompersi il femore scivolando su uno skateboard il giorno prima di portare i bambini in montagna).

Scuole chiuse: dodici settimane; ferie estive consentite nel mondo degli adulti: due settimane, a volte tre, massimo quattro, meglio se mai consecutive.

Tempo vuoto e accaldato da riempire di cose, persone, piscine, creme solari, campeggi, aria buona, ginocchia sbucciate e grandiosi ricordi. La vita si scinde (cravatta al collo, secchiello in mano) e i due mondi, quello fantasmagorico delle vacanze e quello solito del lavoro fino a che il sole si spegne, devono riuscire a darsi la mano, abbracciando ancora di più il caos e le baby sitter automunite, inginocchiandosi davanti a zie che vivono in campagna e gonfiando una piscina in balcone.

 Il momento della scissione, anima e corpo divisi in due (e succede, nella fretta, di arrivare in ufficio in ciabatte da mare), viene di solito annunciato da alcune settimane in cui il frigo della cucina, quello con le calamite, si riempie di volantini: campo estivo al bioparco, dove si può dar da mangiare alle galline ma non ai leoni, campo estivo in barca a vela, campo estivo in montagna, con divieto ai genitori anche solo di telefonare, workshop di acquerelli, campo estivo di tennis, laboratorio teatrale con costruzione di burattini di legno, e per i disorganizzati che hanno trovato tutto esaurito: campo estivo nel cortile di cemento della scuola dove hanno montato un cassone pieno d’acqua, chiamandolo piscina.

“Le vacanze estive sono un incubo logistico per le famiglie dove entrambi i genitori lavorano”, ha scritto Sarah Vine sul Times, proponendo di accorciare quelle sei settimane di chiusura delle scuole inglesi (“non equivocatemi: anche a me piacerebbe fare nient’altro che saltellare verso il tramonto il ventiquattro di luglio e trascorrere un mese e mezzo facendo pic nic in radure assolate”), perché appartengono a una superata vita agreste, a un’èra prefemminista, a un piccolo mondo antico che non esiste più.

In effetti non esistono quasi più, dalle nostre parti, i bambini che devono dare una mano ai genitori per il raccolto, e a settembre prima di tornare a scuola pigiano l’uva con i piedini blu e le guance rosse, anche se è un’idea molto romantica.

 L’idea di accorciare le dodici settimane di vacanza non è priva di un certo senso pratico, anche se è triste immaginare ragazzini adultizzati, che comincerebbero a chiamare le magnifiche vacanze ferie e a tenere il calendario in tasca delle festività riconosciute e quelle soppresse (mia figlia l’ultimo giorno di scuola ha detto che voleva mettere lo zaino “in soffitta”, cioè su uno scaffale alto, “lo riprendo fra tre mesi, quando viene la neve”).

 Sarah Vine, madre ed editorialista, molto stressata dalla ricerca di un campo estivo per i suoi figli, aveva molti argomenti a sostegno della sua proposta (adatta a un paese freddo e piovoso), ma poi ha esagerato con i paragoni, e trasformato la ragione in torto: “Ci sono paesi dove in estate tutto si spegne (l’Italia, per esempio), ma il Regno Unito non è uno di quelli”.

Che cosa esattamente si spegnerebbe qui, d’estate?

A parte la settimana di Ferragosto, in cui comunque ogni anno è tutto sempre un po’ più acceso, non sembra che in Italia i genitori corrano al rallentatore sulla spiaggia da giugno a settembre, e sorridano in foto seppiate fra bambini abbronzati, cani biondi e camicie bianche di lino per dodici settimane di fila, cantando al piano bar o giocando a rubabandiera come in “Sapore di mare”: l’Italia, d’estate, non è più Virna Lisi che fa innamorare il ragazzino con gli occhiali.

E’ piuttosto una folla di madri abbronzate a chiazze (soprattutto sulle braccia, dove picchia il sole dai finestrini dei treni e delle auto), che camminano sul filo sottile del conto alla rovescia per le ferie, pensiero-faro con cui ci si culla la sera, mentre si prepara la borsa per la piscina dei bambini del giorno dopo, ci si concentra sul pensiero positivo perché la riunione venga anticipata alle tre del pomeriggio e si prega la baby sitter (che nel frattempo si è fidanzata e quindi è a rischio sparizione improvvisa) di restare un’ora in più, ché adesso fa buio alle nove e i ragazzini alle sette non hanno nessuna intenzione di cenare, alle sette vogliono stare in mare sul canotto e giocare a ribaltarsi, alle sette vorrebbero un altro gelato e la promessa che alle nove e mezza si andrà a vedere i pagliacci e si mangerà lo zucchero filato. Ma alle sette il mondo non fantasmagorico delle non vacanze non ha ancora spento la luce, anche se secondo Sarah Vine in Italia d’estate chiudiamo le città e le consegnamo al dio dei giorni assolati per andare a mangiare spaghetti e suonare il mandolino nelle località di villeggiatura (l’invidia per il clima fa questi effetti, e del resto se abitassi in Scandinavia non mi cruccerei per le poche settimane, organizzatissime, di vacanze estive, ma mi preoccuperei di trovare legna sufficiente per riscaldarmi nel freddo mese di agosto).

Ma è evidente che, in Inghilterra come in Italia (e in Italia di più) d’estate se lavori e hai dei figli sei sempre in emergenza, un’emergenza assoluta che coinvolge anche i padri, anche se su di loro si spande ancora una benevolenza antica: la loro sparizione nelle spire della città dal lunedì al venerdì viene ancora considerata quasi naturale, nelle spiagge italiane piene di madri che stanno consumando l’ultimo permesso straordinario, nonne, zie e tate addestrate a spalmare sui ragazzini otto strati di protezione 50+ prima di ogni esposizione al sole.

“I padri lavorano”, dice la proprietaria dello stabilimento balneare, che il venerdì sera apparecchia con più cura i tavoli del ristorante, perché finalmente arrivano gli uomini.

 

E le madri, tanto per capire, le ha per caso viste sdraiate sui lettini in perizoma a mezzogiorno? Io le ho viste piangere perché era saltato il wi-fi proprio quando avevano promesso alla bambina di assistere alla sua gara di tuffi, le ho viste prendere treni, pullman, passaggi in automobile da sconosciuti al volo il lunedì all’alba, per passare la dome

nica sera insieme ai figli e guardarli volteggiare in bici nella piazzetta del paesino di mare popolato di sole donne, le ho viste arrivare il mercoledì sera con la speranza di fare un bagno in mare, e accorgersi con qualche minuto di ritardo di essersi dimenticate di fare la ceretta.

Mentre i padri arrivano il venerdì sera, ancora incravattati, e già organizzano tornei di beach volley in cui verranno, per senso della giustizia cosmica, battuti con ignominia da un gruppo di ventenni con le tartarughe al posto della pancetta. Caitlin Moran, giornalista e scrittrice inglese, un pomeriggio di agosto ha scritto un pezzo seduta accanto a una piscina gonfiabile di quindici metri dove sguazzavano le sue figlie sul lungomare di Brighton, con gli schizzi d’acqua che arrivavano sulla tastiera e nessuna presa della corrente dove ricaricare un computer moribondo. “Quanto manca alla morte? A me solo trentasette minuti, dico controllando con ansia l’icona. Ma almeno, noi che lavoriamo nei media possiamo portarci il lavoro ai bordi di una piscina gonfiabile a Brighton.

Immagina di aver dovuto portare il tornio, oppure la fornace, oppure la montagna che dovevi scalare perché sei un alpinista di professione.

Noi siamo fortunati”.

Noi siamo fortunati, perché possiamo fare incrociare i due mondi, e fare in modo che i tre mesi di vacanze estive che non abbiamo siano comunque un tempo allegro, caotico, emergenziale, pieno di strappi alle regole.

“A differenza di mio marito, io nelle emergenze prospero – scrive sempre Caitlin Moran – D’estate puoi far finta di essere nella Seconda guerra mondiale, correre sui pattini, afferrare il bollitore, urlare a tutti: ‘Stanno arrivando i tedeschi!!!’ e fumare sigarette del mercato nero”.

Bere gin alle due di notte sul prato, mettere i bambini a letto in una scatola di cartone sotto il tavolo della veranda, montare una tenda in salotto, rinfrescare il reggiseno in freezer come Marilyn Monroe, invitare tutti gli amici dei figli a dormire in giardino nei sacchi a pelo per guardare le lucciole.

Quando una mattina ho preso il treno per Roma molto presto, correndo ma non in bicicletta perché la bicicletta me l’hanno rubata il primo giorno in cui l’ho parcheggiata in stazione legata a un palo (mi hanno lasciato la catena rossa, spezzata in due, come ricordo), non mi sono accorta di essere uscita senza scarpe.

Ero vestita normalmente, come tutte le madri sul treno dei venditori ambulanti, ma ero in ciabatte di gomma giallo canarino.

Forte dello sguardo imperturbabile di una madre pendolare di Caracas, “a Roma puoi anche andare in giro nuda che tanto nessuno ti guarda, tesoro”, sono andata al lavoro in ciabatte, sono rimasta seduta tutto il giorno e la sera sono sgattaiolata di nuovo fuori in ciabatte, come una studentessa americana (o meglio, come la madre di una studentessa americana arrivata a Roma a trovare la figlia), godendo della completa assenza di scarpe e di buon senso invernale in cui alle sette del mattino si programma nel dettaglio anche la cena del giorno dopo dei bambini. D’estate, nel circo degli equilibristi che cercano di far coincidere l’estate con il lavoro e con le vacanze dei propri figli, saltano tutte le regole.

Una mia amica, finita anche lei sul treno dei pendolari, tennista, nuotatrice, ragazza bellissima che la mattina all’alba va a fare jogging e che quindi normalmente non rientra nelle persone frequentabili, è abituata, d’inverno, a ricevere proposte di menu settimanale per bambini dalla tata via email il lunedì mattina, in formato Excel. Solo per questo avrebbe meritato l’esilio perpetuo, ma adesso è estate, e la tata non c’è (forse è diventata manager di una multinazionale), e la mia amica è molto più simpatica.

Completamente succube della madre, davanti alla quale si è dovuta inginocchiare per chiederle di tenerle i bambini al mare, deve nascondersi per fare telefonate di lavoro, perché la nonna dice che danneggiano lo sviluppo sereno del bambino, deve abbuffarsi tutte le sere di pasta al ragù, perché la madre la trova “una prugna secca”, deve passare un esame anche per i vestiti, “sembri una senzatetto”, la madre la costringe, con la sola forza del ricatto emotivo, a infilare suoi golfini girocollo con filo di perle e a giocare a briscola fino a notte alta.

La mia amica non fa più jogging all’alba, perché la madre ritiene che sia meglio una sana colazione con uova sode, e il marito minaccia di andare a lavorare a Ibiza fino a che l’ordine invernale verrà ristabilito. Ma è il bello del disordine: per un po’ si possono fare tutte le cose che in autunno sono impensabili.

 

Portare fuori i bambini a mezzanotte a mangiare il gelato, farli addormentare in spiaggia sotto un asciugamano, dare la caccia nel fine settimana ai banchetti campagnoli di frutta e verdura più sani del mondo, fare scorta di cocomeri e albicocche e poi cibarsi solo di birra e patatine fritte, con la scusa che non c’è tempo. Guidare scalzi, lamentarsi dell’aria condizionata rotta e subito dopo lamentarsi dell’aria condizionata stile pinguini che fanno il bagno fra i ghiacci, e soprattutto avere sempre una scusa prontissima per tutto quel che non va di fare: mi dispiace, devo raggiungere i bambini al mare, mi dispiace finisce il workshop di acquerelli, mi dispiace devo andare a prendere il figlio grande in montagna al corso di stelle alpine, mi dispiace ma è la settimana campeggio selvaggio, scusa ma è proprio il weekend del nudismo in Corsica.

Perché, poi, a un certo punto arriva il momento in cui i figli non sono ancora insopportabili adolescenti che urlano: vecchiaa ti odioo, ma bambini svegli che partono per qualche vacanza educativa e super controllata, o semplicemente vanno tre giorni al mare dalla migliore amica (una mamma molto sciolta ha mandato il figlio di undici anni per un mese in un camp estivo a San Paolo, in Brasile, con accompagnatori ventenni: lei finge di essere molto serena, e io l’ammiro per questo, ma ora le trema una palpebra e ha comprato all’accompagnatrice ventenne un iPhone5 e promesso altri regali costosi purché le mandi ogni giorno su whatsapp notizie e foto del suo bambino).

 I figli partono e i genitori restano in città a lavorare, ma indossano magliette di concerti di vent’anni prima, si imbucano alle feste, scrivono romanzi, si tuffano nelle fontane e girano per la città in Vespa di notte, in uno stato di trance dovuto alla troppa improvvisa libertà, bevono i cocktail dell’adolescenza, compresa la Sangria, e finiscono di solito a vomitare nei bagni pubblici o a fare scenate di gelosia alla moglie che balla sulla spiaggia mentre uno sconosciuto le soffia frasi all’orecchio.

D’estate, nel tempo sospeso fra quello fantasmagorico delle vacanze e quello normale dell’ufficio svuotato dai turni delle ferie, succede sempre qualcosa, ed è questo il vero passaggio fra l’anno vecchio e l’anno nuovo, in cui fare promesse, propositi (piscina tutto l’inverno per i bambini, lo giuro, spergiuro almeno da cinque estati), in cui buttare dalla finestra quello che si è rotto, compresi gli occhiali da sole specchiati che sulla spiaggia sembravano bellissimi, e tutti ci venivano a parlare da vicino, guardandoci negli occhi e facendo strane facce ammiccanti, ma in realtà si stavano sistemando i capelli e controllando di non avere insalata fra i denti.

D’estate, con i bambini che non vanno a scuola, la mattina si può guardarli dormire, con le bocche spalancate, i denti caduti, abbracciati a un secchiello pieno di conchiglie sporche (i granchi, dopo lunghe discussioni, sono stati liberati nella notte cantando loro, come incoraggiamento: “Oggi qui domani là, io amo la libertà” di Patty Pravo). Perché poi, a lungo invocato, arriva il primo giorno di scuola.

 Loro sono un po’ più alti, un po’ più grandi.

E scrive Caitlin Moran che “i cancelli della scuola sembrano il primo punto di raccolta dopo un incidente aereo.

Genitori con gli occhi sbarrati salutano i figli che entrano nell’edificio: hanno l’aspetto di chi ha speso così tanti soldi e ha chiesto così tanti favori ai nonni che ora ha bisogno di stare sdraiato immobile per cinque giorni prima di sentirsi di nuovo normale” .

Solo a emergenza finita ci si accorge del tempo prezioso che è stato, e dodici settimane forse sono tante, ma sono anche appena sufficienti a ristabilire il disordine necessario, le lentiggini, i viaggi in auto di notte per non perdere la mattina di lavoro, le passeggiate in montagna con la promessa che in cima si troverà un negozio Disney.

E la possibilità di inventarsi ogni volta un’emergenza più complicata.

 

(tratto da IL FOGLIO QUOTIDIANO)

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