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Alfred Nakache Illustrazione di Roberto Melis

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Alfred Nakache guardava, da riva o da bordo vasca, tutta la famiglia, papà David, mamma, e i suoi 10 fratelli e sorelle, sguazzare e nuotare in qualsiasi piscina o pozza d’acqua disponibile a Constantine, la città dell’Algeria, la “città dei ponti”, dove era nato per undicesimo della casa.

Guardava, memorizzava i gesti, ma quanto a tuffarsi era un altro paio di maniche: aveva paura dell’acqua. “Dài, Artem, tuffati” gli facevano con insistenza David, l’uomo del banco dei pegni, e tutta la ciurma dei Nakache. In famiglia, e nella comunità ebraica cui apparteneva, lo chiamavano Artem.

David, quando il bambino aveva dieci anni, si stufò: lo prese di peso e lo gettò in acqua per fargli vincere quell’idrofobia che lo attanagliava. Era pronto a tuffarsi al salvataggio, ma restò meravigliato a secco: Alfred sapeva nuotare. Aveva imparato con gli occhi, solo guardando.

Aveva imparato anche bene: sarebbe diventato un campione, avrebbe partecipato due volte ai Giochi Olimpici, prima e dopo la Seconda Guerra Mondiale ed avrebbe anche fissato un record del mondo nei 200 rana, togliendolo a Jacques Ulysses Cartonnet, anche lui di cittadinanza francese. Ma queste sono statistiche: la storia è altrove.

A 18 anni Alfred si trasferì a Parigi: del resto era cittadino francese, per via del decreto Cremieux che nel 1870 aveva attribuito questo status agli ebrei d’Algeria, suscitando la doppia reazione, dei coloni antisemiti e dei musulmani che si sentirono discriminati in peggio.

Fu tesserato dal Racing Club e poté partecipare alle gare nazionali ed a quelle della Nazionale: fu così che andò a Berlino ’36; i tedeschi erano “contrariati” per via dell’ebreo in acqua (anche certi francesi: “Esci, la sporchi” gli gridavano spesso dagli spalti e lui nuotava meglio) ma non potevano farci niente: avevano dovuto “limitarsi” ad escludere dai Giochi gli ebrei di casa, con la scusa delle selezioni sportive; avevano sempre un ariano migliore… Nakache si piazzò quarto nella staffetta 4×200, precedendo proprio la Germania.

Scoppiò la guerra: stivali della Gestapo a Parigi. Un po’ di sport si faceva ancora: Nakache vinse cinque titoli di Francia. Incontrò Paule che giocava a basket, si sposarono e nacque Annie. Parigi era diventata invivibile per le persone come Alfred.

Si trasferì a sud, a Tolosa, nella Francia libera. Forse entrò nell’Armée Juive. Cartonnet, invece, entrò nella milizia della Francia collaborazionista del Maresciallo Pètain. I campionati del ’43 dovevano svolgersi nella capitale occupata: Nakache, che adesso era tesserato per i “delfini di Tolosa” usò tutta la sua influenza di miglior nuotatore di Francia per farli spostare, naturalmente a Tolosa.

Gli dettero ragione, però a una condizione: che non partecipasse. Per protesta non parteciparono neppure altri 27 nuotatori di Tolosa né 12 di Lione.

Alfred capì che era l’ora di andarsene. Si mise in un gruppo che di notte doveva passare i Pirenei: la Spagna di Franco era qualcosa di meno peggio della Francia di Pètain. Si avviarono, Paule, Annie e lui, ma nella notte dello scavalcamento Annie, che aveva due anni, iniziò un pianto rumoroso. Per non compromettere l’intero gruppo, i tre Nakache si allontanarono.

Si nascosero in clandestinità. Qualcuno (un indiziato ma senza mai prove fu Cartonnet) li denunciò: vennero arrestati nel novembre del ’43. Il 20 gennaio del ’44 furono caricati sul treno numero 66 che andava dalla stazione di Bobigny al campo di Auschwitz: 29 ore nel vagone piombato. Scesero e furono subito separati: Paule e Annie furono avviate alle camere a gas, Alfred al campo di lavoro.

Sapevano chi era: lo chiamavano il “nuotatore di Auschwitz”. C’era una pozza d’acqua di ritenzione, tenuta lì come scorta in caso d’incendio, gelida d’inverno, bollente e puzzolente d’estate.

I guardiani tedeschi si divertivano, convocavano Nakache, il loro giocattolo, il prigioniero numero 172763 com’era marchiato, gettavano in fondo alla pozza un pugnale, un sasso, generosamente una moneta e poi gli ordinavano di tuffarsi per andarla a raccattare sul fondo. Subiva l’umiliazione, sopravviveva. Incontrò Primo Levi, “se questo é un uomo”.

L’Armata Rossa era vicina, e la liberazione pure: finì intrappolato in una di quelle marce della morte con cui i nazisti cercavano di portare altrove gli ebrei e di nascondere l’Olocausto. Erano 1368 con Alfred; sopravvissero in 48, lui compreso. Quando fu liberato pesava 40 chili, il campione che “prima” ne pesava 80.

Tornò a Tolosa, riprese a nuotare. Riprese anche i chili e la vita. Scoprì che, credendolo morto, gli avevano intitolato la piscina. Volle sperare che neppure Paule e Annie fossero morte, come gli dicevano tutti: andò per giorni e giorni ad aspettarle alla stazione. Non tornarono mai.

Riprese a nuotare e riuscì anche a partecipare ai Giochi di Londra 1948. E Cartonnet? Il rivale era stato condannato a morte in contumacia: era fuggito in Italia. Arrestarono anche lui. Fuggì saltando giù dall’aereo militare che già rullava sulla pista di Ciampino; scappò a Foligno, dove nell’anonimato si mise a insegnare francese. Due anni dopo fu scoperto e di nuovo arrestato. Fuggì di nuovo e di lui si sa che morì una ventina d’anni dopo nascosto in un monastero umbro.

Alfred, il bambino che aveva paura dell’acqua, adesso era un insegnante di educazione fisica in pensione che tutti i giorni dell’estate dell’83 nuotava nel mare del sud della Francia. Fu il 4 agosto dell’83 che il cuore lo abbandonò nel golfo di Cerbère, l’ultima città francese prima della Spagna, sul Mediterraneo.


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