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REGGIO CALABRIA – L’allarme lo ha lanciato la compagna. Quando ha aperto la porta nell’abitazione dove viveva Nino Lo Giudice, in una località protetta, non ha trovato nessuno. Una condizione inquietante, che ha fatto subito scattare l’allarme. Non solo perché “U nanu” era agli arresti domiciliari, ma anche perché sembra che il pentito di ‘ndrangheta non si separasse facilmente dalla sua donna. Un elemento che crea ancora più preoccupazione tra gli inquirenti. Il pentito della cosca reggina si è allontanato volontariamente da quella casa, ma ciò che non è chiaro è il motivo per cui lo avrebbe fatto. Da mercoledì non si hanno notizie di lui, un dato che preoccupa la Procura di Reggio Calabria guidata da Federico Cafiero De Raho. 

Il vertice tenuto ieri dai magistrati non ha prodotto grandi risultati, nel senso che al momento non ci sono elementi utili per comprendere i motivi dell’allontanamento, ma anche per ricostruire il modo in cui questo è avvenuto. Per Cafiero de Raho si tratta di «una vicenda delicata sulla quale l’ufficio ha avviato le indagini che rientrano nella sua competenza». Lo Giudice, ex boss e capo dell’omonima cosca di Reggio Calabria, collabora con la giustizia dal 15 ottobre del 2010. Aveva saltato il fosso una settimana dopo il giorno del suo arresto, notificatogli con l’accusa di reati minori. A raccogliere le sue prime dichiarazioni da pentito fu l’allora Procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, Giuseppe Pignatone, che oggi dirige la Procura di Roma. Al quale Lo Giudice riferì una serie di episodi che hanno riempito decine di pagine di verbale. I più importanti sono certamente quelli che hanno portato poco tempo dopo a svelare retroscena ed esecutori degli attentati dinamitardi fatti sempre nel 2010 contro la Procura generale di Reggio Calabria, il 3 gennaio, e contro l’abitazione del Procuratore generale, Salvatore Di Landro, il 26 agosto. 

Lo Giudice si autoaccusò di essere stato il mandante dei due attentati, pianificati dopo l’arresto del fratello Luciano, considerato la mente economica della cosca. Analogammente fece a proposito del bazooka che fu trovato, sempre nel 2010, nei pressi dell’edificio del Centro direzionale che ospita gli uffici della Dda reggina. Episodio che spiegò come un «messaggio» intimidatorio rivolto direttamente al procuratore Pignatone. Le rivelazioni di Lo Giudice si sono tradotte in provvedimenti giudiziari nei confronti degli esecutori delle intimidazioni ai magistrati. Lui stesso condannato a 6 anni e quattro mesi in primo grado dal Gup di Catanzaro, era ora testimone contro il fratello Luciano Lo Giudice, ed i presunti autori materiali Antonio Cortese, ritenuto l’armiere della cosca, e Vincenzo Puntorieri. Lo Giudice, almeno apparentemente, non aveva alcuna ragione per lasciare il luogo protetto nel quale era nascosto e nemmeno una cospicua disponibilità economica per gestire la fuga. Ed è per questo che il punto da capire, però, è perché lo ha fatto e perché proprio adesso. Domande a cui per il momento non ci sono risposte.
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