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I CONTI, effettivamente, non tornano e non solo sui vaccini anti Covid. Soprattutto in materia di sanità e gestione dell’emergenza Covid, le Regioni del Sud hanno ricevuto meno aiuti dal governo centrale. Basta analizzare il report della Protezione civile sulla distribuzione dei materiali (dispositivi di protezione e strumentazione), aggiornato allo scorso 5 aprile, per accorgersi che c’è stata una disparità: ad esempio, la Lombardia, che effettivamente è stata più colpita durante la prima ondata Covid, ha ricevuto oltre 516 milioni di pezzi tra mascherine, guanti, tute, ventilatori polmonari, saturimetri, etc.
Ma Lombardia a parte, nei primi sei posti ci sono quattro Regioni del Nord, una del centro (Lazio) e una del Sud (Sicilia). Il Veneto ha ricevuto più di 343 milioni di pezzi, la Puglia circa la metà (213 milioni), la Campania ancora meno (187 milioni). Eppure la seconda e terza ondata ha travolto tutti. Anche Emilia Romagna e Toscana hanno ottenuto più aiuti, 276 milioni di pezzi la regione di Bonaccini, 225 milioni quella di Giani. La Calabria, che conta poco meno di due milioni di abitanti, ha ricevuto 81,6 milioni di pezzi; il Trentino Alto Adige, che di residenti ne conta circa un milione, ha ottenuto 95,6 milioni di pezzi. Quattordici milioni in più nonostante la metà della popolazione.
I conti non tornano. La pandemia ormai è uniforme nel Paese, anche la distribuzione delle “armi” per combatterla dovrebbe essere uguale. Invece, le Regioni del Mezzogiorno devono anche questa volta fare i conti con meno strumenti e risorse. Un Sud che è già penalizzato dal punto di vista degli organici negli ospedali: la Campania, infatti, che fa 5,8 milioni di residenti, può contare soltanto su 42mila operatori sanitari; in Emilia Romagna (4,4 milioni) i dipendenti sono invece oltre 57mila, in Veneto (4,9 milioni) quasi 58mila, in Toscana (3,7 milioni) sono quasi 49mila, in Piemonte (4,3 milioni) sono 53mila, non parliamo della Lombardia dove si sfiora le 100mila unità. In Puglia, dove si conta una popolazione di 4,1 milioni di abitanti, il personale sanitario a tempo indeterminato impegnato negli ospedali supera di poco le 35mila unità; persino il Lazio (5,8 milioni di abitanti) ha appena 41mila dipendenti a tempo indeterminato al lavoro nella sua sanità.
I numeri sono messi nero su bianco dalla Corte dei Conti nel suo “Rapporto 2020 sul coordinamento della finanza pubblica”. Far funzionare una terapia intensiva, un reparto di Malattie infettive, uno di pneumologia, per di più durante una pandemia, senza avere il personale numericamente adeguato è roba da acrobati. “Negli ultimi due anni – scrive la Corte dei Conti – sono divenuti più evidenti gli effetti negativi di due fenomeni diversi che hanno inciso sulle dotazioni organiche del sistema di assistenza: il permanere per un lungo periodo di vincoli alla dinamica della spesa per personale e le carenze, specie in alcuni ambiti, di personale specialistico. Come messo in rilievo di recente, a seguito del blocco del turn-over nelle Regioni in piano di rientro e delle misure di contenimento delle assunzioni adottate anche in altre Regioni (con il vincolo alla spesa), negli ultimi dieci anni il personale a tempo indeterminato del Sistema sanitario nazionale è fortemente diminuito. Al 31 dicembre 2018 era inferiore a quello del 2012 per circa 25.000 lavoratori (circa 41.400 rispetto al 2008)”.
Le Regioni in Piano di rientro sono quelle del Sud, che per anni, 10 la Puglia ad esempio, essendo sotto il controllo dei ministeri della Salute e dell’Economia non hanno potuto assumere. La sanità, alla pari delle infrastrutture, è il settore che, più di altri, necessita di una iniezione di liquidità al Mezzogiorno per recuperare quel gap che si è creato negli ultimi 20 anni di sottofinanziamento rispetto al Nord. La spesa per investimenti in sanità, ad esempio, è stata del tutto squilibrata territorialmente: dei 47 miliardi totali impegnati in 18 anni (2000-2017), oltre 27,4 sono finiti nelle casse delle regioni del Nord, 11,5 in quelle del Centro e 10,5 nel Mezzogiorno.
E’ questa l’analisi che emerge dal sistema dei Conti Pubblici Territoriali (CPT): in termini pro-capite, significa che mentre la Valle d’Aosta ha potuto investire per i suoi ospedali 89,9 euro, l’Emilia Romagna 84,4 euro, la Toscana 77 euro, il Veneto 61,3 euro, il Friuli Venezia Giulia 49,9 euro, Piemonte 44,1, Liguria 43,9 euro e Lombardia 40,8 euro; la Calabria ha dovuto accontentarsi di appena 15,9 euro pro-capite, la Campania 22,6 euro, la Puglia 26,2 euro, il Molise 24,2 euro, il Lazio 22,3 euro, l’Abruzzo 33 euro.
Altri indicatori confermano che, ogni anno, al Nord arrivano maggiori trasferimenti da Roma destinati alla sanità: dal 2017 al 2018, ad esempio, la Lombardia ha visto aumentare la sua quota del riparto del fondo sanitario dell’1,07%, contro lo 0,75% della Calabria, lo 0,42% della Basilicata o lo 0,45% del Molise.
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