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Galeotta la pasta che continua a trionfare sulle tavole di tutto il mondo (record storico dell’export di oltre 3 miliardi, + 16% secondo i dati Coldiretti), ma anche l’effetto Covid ha rilanciato la coltivazione di cereali in Italia. E così la Puglia, granaio storico del Paese, si avvia a riconquistare gli antichi primati. Dopo anni di calo delle superfici coltivate, per il 2021, secondo le previsioni pubblicate ieri dall’Istat, ci sarà un aumento delle aree investite.
LA RISALITA IN CIFRE
La pandemia, che ha fatto scattare l’allarme approvvigionamenti, ha rispostato il tiro sull’agricoltura, che è tornata centrale anche nell’attenzione della politica. Una situazione che sta favorendo la riscoperta dei cereali, la materia agricola base per eccellenza.
Ma anche su questo fronte il Mezzogiorno ha anticipato “le mode” e nella fase di flessione generalizzata, tra il 2010 e il 2020, delle superfici cerealicole, spiega il report dell’Istituto di statistica, a fronte del calo accentuato nel Nord ovest (-3,1%), ma anche nel Centro, il Sud ha viaggiato in controtendenza mettendo a segno un aumento del 6,1% che ha portato il peso relativo del settore sul totale nazionale dal 24,2% del 2010 al 30,3 del 2020.
La Puglia svetta con il 13,8% delle superfici cerealicole, l’83% coltivata a frumento duro (344.300 ettari), e ha sorpassato la Sicilia che dieci anni fa deteneva il primato nazionale. In ogni caso tra il 2010 e il 2020 il frumento duro ha resistito rispetto agli altri cereali, in particolare il mais, passando da un peso del 36,9% del 2010 al 40,3% del 2020.
Le previsioni di crescita della nuova annata sono legate anche alla ripresa dei prezzi che nel 2020 si sono impennati. Secondo le aziende agricole gli investimenti per il 2021 si indirizzeranno sul frumento duro, con un aumento previsto del 5,6%. Anche per il mais si prevede un cambio di passo riconducibile alla domanda del settore zootecnico.
Si sta comunque registrando un’inversione di tendenza, anche se sarà difficile recuperare nel breve tempo i terreni perduti. L’Italia, sottolinea l’Istat, negli ultimi dieci anni, contrariamente all’Unione europea, non ha perso la Sau, che anzi è aumentata del 4,1% a fronte del calo dello 0,9% della Ue, ma è cambiata la fisionomia agricola. Si sono ridotte le superfici a seminativo a vantaggio di quelle a prati permanenti, pascoli e coltivazioni legnose agrarie.
I PILASTRI DEL CAMBIAMENTO
Tre i fattori che hanno inciso sul cambiamento: il processo di modernizzazione, la concorrenza di prezzo dei prodotti esteri e i cambiamenti climatici, con fattori di rischi aggiuntivi che hanno spinto gli agricoltori a riorientare le coltivazioni verso specie vegetali meno soggette agli eventi meteo.
Il grano in particolare negli ultimi anni, complice anche la scelta della Politica agricola comune di concedere contributi slegati dalle produzioni, ha perso appeal. A peggiorare il quadro l’assalto ai terreni, in particolare della Puglia, da parte di operatori attratti dal business del fotovoltaico. Prezzi dei cereali non concorrenziali e ricavi più consistenti dagli affitti di aree per piazzare i pannelli solari hanno rappresentato un cocktail micidiale. E ancora, la “propaganda” di alcune industrie della pasta che magnificavano il valore proteico dei grani esteri.
Ma qualcosa in questi ultimi anni è cambiato. Basilare la battaglia ingaggiata in Italia e a Bruxelles dalla Coldiretti sull’obbligo di indicare sull’etichetta della pasta la provenienza del grano duro, che alla fine ha portato all’approvazione della legge che consente ai consumatori di verificare le materie prime con le quali sono realizzati i cibi. L’allarme sanitario poi esploso sul grano canadese prodotto con l’uso del glifosato, un diserbante della Monsanto che l’Agenzia per la ricerca sul cancro dell’Oms ha bollato come cancerogeno e che è costato alla multinazionale cause miliardarie negli Stati Uniti, ha spostato la scelta di molte aziende della pasta sul frumento made in Italy che, maturato al sole della Puglia e della Sicilia e senza “aiutini” chimici, vince in qualità e sicurezza.
La pandemia, che ha messo in evidenza la necessità di disporre di prodotti alimentari sufficienti (nel lockdown della primavera dello scorso anno c’era stata la corsa alla farina come in tempo di guerra) ha rilanciato le produzioni agricole nazionali. Solo grazie a queste, infatti, con le frontiere chiuse, è stato possibile garantire scaffali sempre riforniti.
Le prospettive, dunque, si presentano favorevoli, soprattutto se saranno mantenute le promesse del governo Draghi di sostenere l’agroalimentare, ma il presente non è roseo. Su quasi un’azienda su cinque, secondo l’analisi della Coldiretti sui dati Istat, pesa la riduzione della domanda di prodotti agricoli a causa del crollo del turismo e del taglio degli acquisti del canale della ristorazione, dai ristoranti ai pub, dalle pizzerie alle enoteche. La chiusura di aprile, secondo le previsioni, costerà infatti 1,5 miliardi di cibi invenduti.
LE PREOCCUPAZIONI
Tra le preoccupazioni – dice Coldiretti – emerge anche l’impatto dell’aumento dei costi di produzione (7,5%) che riguarda le materie prime, dai prodotti energetici agli alimenti per il bestiame, mentre il 6,9% delle aziende segnala la mancanza di liquidità per fare fronte alle spese correnti. Uno scenario preoccupante, con il 9,5% delle aziende agricole che ritiene non sia possibile tornare alla situazione antecedente all’emergenza Covid.
Nonostante le difficoltà durante la pandemia, poi, più di quattro aziende agricole su dieci (40,8%) non hanno ricevuto secondo l’Istat alcun tipo di sostegno economico statale, europeo o altre forme di aiuto.
E ora si guarda con attenzione all’ultimo decreto Sostegni che, oltre alle agevolazioni sul fronte contributivo, dovrebbe portare ristori diretti nelle casse delle aziende agricole e degli agriturismi.
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