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MILANO – E’ stato condannato a 8 anni di carcere Francesco Maida, presunto affiliato al clan della ‘ndrangheta capeggiato dallo storico boss Lino Greco di San Mauro Marchesato, nel Crotonese.
Maida venne arrestato lo scorso luglio in un’inchiesta milanese da cui era emerso che la mafia calabrese era riuscita pure a mettere le mani sugli aiuti economici stanziati in seguito alla pandemia da Covid: 60 mila euro a fondo perduto incassati illecitamente e altri 250 mila, che rientravano nei prestiti agevolati previsti dal fondo per piccole medie imprese, richiesti ma bloccati.
La sentenza, a seguito dell’inchiesta del pm Bruna Albertini, condotta dal Nucleo di polizia economico finanziaria della Gdf, è stata emessa con rito abbreviato dal gup Domenico Santoro, che ha anche condannato a 5 anni e 2 mesi Giuseppe Arcuri e a 7 anni e 10 mesi Luciano Ivaldo Mercuri, entrambi ritenuti «sodali» di Maida.
Al centro delle indagini l’accusa di associazione per delinquere finalizzata alla frode fiscale, aggravata dall’aver agevolato il clan mafioso e dalla disponibilità di armi, oltre ad autoriciclaggio, intestazione fittizia di beni e bancarotta.
Un altro imputato è stato condannato a 4 anni e mezzo, mentre un cinese, anche lui a processo, è stato assolto. Tre società riconducibili a Maida, stando alle indagini, avrebbero ottenuto illegalmente circa 60 mila euro a fondo perduto sfruttando l’emergenza Covid: 45 mila euro sono andati a Clessidra White, 2000 ad Almagest e circa 11mila a Impianti srl.
Francesco Maida e i suoi sodali, Mercuri e Arcuri, stando agli atti, avrebbero messo in piedi “una complessa frode all’Iva nel settore del commercio di acciaio” con fatture false e attraverso società cartiere e filtro, anche all’estero, intestate a prestanome. Società italiane e bulgare, di fatto gestite da affiliati al clan che fa capo a Greco, una «cosca federata» a quella di Cutro e che fa capo a Grande Aracri. I tre, secondo la ricostruzione, avrebbero anche gestito alcune armi della cosca.
Dal giugno scorso, sempre Maida, aiutato da un prestanome ma formalmente titolare di una delle società finite nel mirino della Gdf, si sarebbe attivato «presso almeno tre istituti di credito» per ottenere «i contributi stanziati dal Governo» per le imprese «attraverso l’adozione di misure urgenti in materia di accesso al credito». Circa 250 mila euro, ma mai ottenuti in quanto le pratiche sono state bloccate. Nelle pieghe dell’inchiesta era venuto a galla anche un sistema di lavaggio dei soldi sporchi che viaggiava lungo l’asse Italia-Cina. Oltre agli arresti, a luglio erano stati sequestrati beni per 7,5 milioni di euro.
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