Il magistrato Roberto Di Bella
7 minuti per la letturaLa sua esperienza di giudice prima, e presidente del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria poi, lo ha portato a conoscere molti ragazzi nati nelle più potenti famiglie di ‘ndrangheta. Per Roberto Di Bella non è stato difficile comprendere che dietro tanti occhi apparentemente freddi, spavaldi, si celasse una profonda sofferenza e un disperato bisogno di aiuto.
Grazie a lui ha preso forma il progetto “Liberi di scegliere”, la possibilità per tanti ragazzi e per le loro madri, di avere una seconda occasione. Ha raccontato la sua esperienza umana e professionale in un libro edito da Rizzoli, e scritto con la scrittrice e sceneggiatrice Monica Zapelli. La sua attività ha ispirato anche il film “Liberi di scegliere” prodotto da Rai Fiction e Bibi Film Tv.
Dottor Di Bella, è grazie al suo impegno se il progetto “Liberi di scegliere” è diventato un protocollo governativo. Offrire una possibilità di salvezza a molti ragazzi nati nelle famiglie di ‘ndrangheta, ha di fatto impedito e impedirà in futuro, che tante giovani vite possano andare ad allungare il triste elenco delle vittime di mafia. Che significato ha, alla luce della sua personale esperienza, questa giornata dedicata alla memoria e all’impegno.
«Ha un significato molto importante per vari ordini di ragioni. Ho lavorato in Calabria per tanti anni al Tribunale per i minorenni in un territorio, purtroppo, funestato dalla presenza della ‘ndrangheta, e vittime di reati nel corso dell’attività processuale, ne ho incontrate moltissime. Ho ben chiara la sofferenza che provoca questo tipo di attività criminale. Ma io vorrei ampliare la platea delle vittime della criminalità organizzata ed estenderla anche ai minorenni nati nelle famiglie di ‘ndrangheta. In venticinque anni di attività al Tribunale per i minori di Reggio Calabria, ho giudicato, purtroppo, prima i padri e poi i figli, tutti con lo stesso cognome, tutti appartenenti ai clan presenti sul territorio, tutti con la stessa tipologia di reati. Molti di loro, ancora ragazzi, avevano una luce nello sguardo, sentimenti e potenzialità per aspirare a una vita diversa da quella della carcerazione, della morte o comunque della sofferenza imposta dalle loro famiglie. Questi giovani sono delle vittime perché respirano fin da piccoli la cultura della violenza e della sopraffazione, sono abituati a controllare le loro emozioni per non tradirsi e per non tradire la famiglia. Ma soprattutto sono ragazzi ai quali viene negata la fase dell’adolescenza, non hanno un padre con cui condividere la quotidianità perché sono in carcere, o sono latitanti o sono stati uccisi, e per questo le prime vittime delle famiglie di ‘ndrangheta sono proprio i loro figli. Questi giovani sono cresciuti odiando lo Stato perché i carabinieri arrivavano nelle loro case in piena notte per fare delle perquisizioni o per arrestare i loro genitori e molti di loro, a dodici, tredici anni, sputavano per terra al passaggio di una Volante della Polizia. Altri, addirittura, si facevano tatuare la figura del carabiniere sotto la pianta del piede in maniera da calpestarla continuamente. Però, al di là di queste forme di ostentazione e di orgoglio di appartenenza alla famiglia mafiosa, in realtà questi ragazzi sono portatori di un vissuto di profonda sofferenza perché gli viene compressa la libertà di scelta, di espressione individuale, sono costretti ad uniformarsi ai diktat della loro famiglia. I report psicologici dei casi trattati sono veramente devastanti, spesso ricordano la sindrome dei reduci della guerra del Vietnam. Molti di loro, ragazzi e ragazze, hanno incubi notturni, provano un profondo senso di angoscia che scaturisce da sogni popolati da incubi in cui devono difendersi da un killer o devono salvare un loro congiunto da un pericolo imminente e quindi la loro condizione interiore è molto complessa. In tanti, per sostenere il peso e la reputazione del cognome che portano, sono costretti a prendere degli psicofarmaci».
E le donne, le mamme, davanti a questo scenario come si rapportano con i loro figli?
«Molte di loro sono donne provate da lutti, dalle loro carcerazioni e da quelle dei loro familiari. Noi occupandoci dei minori ci siamo imbattuti casualmente in queste madri e abbiamo intercettato la loro sofferenza, la loro richiesta di aiuto. Ci siamo trovati davanti a un vero e proprio bisogno sociale, e per questo il progetto “Liberi di scegliere” ha rappresentato e rappresenta un punto di svolta. Tante donne si sono presentate spontaneamente chiedendoci di allontanarle insieme ai loro figli. Alcune sono diventate collaboratrici di giustizia, altre, pur non avendo rapporti collaborativi da dare, hanno chiesto ugualmente di andare via. Per questo sono profondamente convinto che anche loro siano vittime della criminalità organizzata. E paradossalmente sono vittime e carnefici anche molti boss detenuti. Io intrattengo rapporti epistolari con molti di loro, alcuni sono anche al 41 bis, e oltre agli incoraggiamenti per la nuova strada intrapresa dai loro figli, spesso mi esprimono il personale rammarico per non aver avuto la possibilità di intraprendere un’altra strada, e mi raccontano di essere stati ritirati da scuola dalle loro famiglie, quando erano ancora molto piccoli, perché c’era una faida in atto e rischiavano la vita. In tanti rimpiangono quell’adolescenza che non hanno mai avuto la possibilità di vivere».
Se dovesse indicare il momento preciso in cui realizzò che allontanare questi ragazzi dai contesti mafiosi in cui erano nati e cresciuti, poteva significare per loro la salvezza, quale sarebbe?
«Il progetto “Liberi di scegliere” nasce anche da un mio percorso di maturazione personale e professionale. Quando arrivai in Calabria ero ancora un ragazzo e la mia preoccupazione era quella di assicurare un giusto processo agli imputati ma soprattutto quello di garantire adeguate tutele alle vittime dei reati che in questi territori restano spesso senza adeguate retribuzioni. Inoltre, mi resi subito conto che i ragazzi che giudicavo non erano dei criminali irriducibili ma erano soltanto dei ragazzi cresciuti odiando lo Stato e bisognava provare a prendere loro la mano. Dietro la loro apparente freddezza c’era sempre una grande sofferenza. Ma c’è stato un episodio, più degli altri, che mi ha in qualche modo segnato ed è la vicenda di un ragazzo, figlio di un boss calabrese, che io avevo processato e condannato per porto d’arma con matricola abrasa e colpo in canna. Durante l’udienza era molto sprezzante, io lo condannai e andò in una comunità che era annessa al Tribunale per i minorenni. Ci fu un giorno in cui la direttrice della struttura mi chiamò per chiedermi se volevo riceverlo perché quel ragazzo aveva bisogno di un riferimento paterno. Io le risposi che ero un giudice e lui il figlio di un boss, non potevo vederlo se non in presenza del suo avvocato. Lei insistette tanto perché il ragazzo stava molto male. Quando me lo trovai davanti era completamente smarrito, aveva perso la sicurezza che avevo visto qualche mese prima in udienza, e questo mi portò ad avere con lui un confronto franco, diretto. Gli chiesi subito cosa voleva fare, se finire all’ergastolo come i suoi fratelli o morto ammazzato come suo padre. Lui annuì e mi chiese se dopo aver espiato la pena, potevo aiutarlo. Poi, però, fui trasferito a Messina e non ebbi più l’occasione di vederlo, ma seppi in seguito che lui, una volta espiata la pena, cercò di me. Quando nel 2011 tornai a Reggio Calabria, seppi che non ce l’aveva fatta, che quel ragazzo era stato condannato per reati di mafia e che era finito in una struttura psichiatrica. Continuò, però, a mandarmi i suoi saluti perché diceva, ero stato l’unico giudice a trattarlo da essere umano. Provai in quel momento un profondo fallimento perché era il terzo ragazzo della stessa famiglia che avevo giudicato. Un paio di mesi dopo il mio ritorno a Reggio Calabria come presidente, arrestarono anche l’ultimo dei fratelli, il più piccolo, e allora in quella occasione mi resi conto che dovevamo fare qualcosa di più, mandarlo subito in un altro contesto sociale e così è partito tutto. Da allora abbiamo allontanato ottanta minorenni, venticinque donne con i loro figli e venticinque nuclei familiari. Dal 2012 a oggi il progetto ha fatto dei progressi enormi. Ciò che mi ha mosso è stato l’istinto di sopravvivenza personale e professionale, non potevo insieme ai colleghi assistere oltre, in modo inerme, alla distruzione che alcune famiglie facevano dei loro figli. Il contributo dato al progetto dall’associazione “Libera” è stato determinante. Con don Luigi Ciotti e l’avvocato Enza Rando abbiamo creato le condizioni necessarie per offrire un’opportunità vera, concreta, sia a questi ragazzi che alle loro madri. Ora hanno realmente l’opportunità di costruire una nuova vita».
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