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Don Giuseppe Giovinazzo

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OGGI sono tante le voci coraggiose di sacerdoti e vescovi che rifiutano le logiche della ‘ndrangheta e denunciano un’organizzazione criminale che ha modellato i propri riti di affiliazione sulle cerimonie della tradizione cattolica. Ma volendo fare un salto nel passato, verso la fine del 1800, in pochi si schierarono apertamente contro la violenza mafiosa.

Don Antonio Polimeni e don Giorgio Fallara lo fecero e pagarono con la vita il loro atto di coraggio. Dissero no a una richiesta estorsiva di denaro e denunciarono la persona che li vessava da tempo. L’abito che indossavano e il ruolo che ricoprivano all’interno della loro comunità, non li mise al riparo dalla vendetta di un giovane sanguinario che aveva costruito la sua fama sull’uso facile del coltello e la conseguente capacità intimidatoria che ne scaturiva.

«Don Antonio Polimeni – racconta Mimmo Nasone dell’area nazionale giustizia dell’associazione “Libera” – era il parroco di Ortì, una frazione aspromontana di Reggio Calabria. Nel marzo del 1860 entrò in contrasto con Domenico Chirico, appena ventenne, a causa del pagamento di una tassa sulla contribuzione fondiaria. Nonostante il sacerdote gli avesse versato dei soldi, il giovane ne pretendeva degli altri per conto del suocero Francesco Viterisi. Don Polimeni non accolse le sue richieste e per questo venne minacciato pesantemente. In seguito, era la sera del 30 marzo, furono picchiati a sangue sia lui che suo fratello Sebastiano in località “Nocara”.

L’altro prete di Ortì, don Giorgio Fallara, venuto a conoscenza del grave atto intimidatorio subito dal confratello, scrisse immediatamente una lettera al vescovo dell’epoca per informarlo dell’accaduto. A sua volta il capo della diocesi riferì alla polizia i fatti che gli erano stati raccontati, preoccupato del rischio che correvano i suoi sacerdoti. In seguito anche don Fallara verrà minacciato da Chirico per aver preso le difese di don Polimeni e per averlo denunciato agli organi di polizia. L’8 ottobre del 1862 la storia si concluderà tragicamente con l’uccisione dei due preti».

Don Antonio Polimeni e don Giorgio Fallara furono uccisi la mattina dell’8 ottobre del 1862 in località “Torre” ad Ortì. I due sacerdoti erano usciti la mattina presto per recarsi dal loro vescovo a Reggio Calabria dov’erano attesi. Ma dal buio improvvisamente sbucarono due figure con i fucili in mano e fecero fuoco sui religiosi. Il primo a essere colpito fu don Fallara che si accasciò al suolo. Don Polimeni fu ritrovato qualche metro più avanti, anche lui era stato colpito dai proiettili dei due sicari. Al tragico fatto di sangue aveva assistito un testimone che fece nome e cognome dei responsabili, i fratelli Antonio e Domenico Chirico, che subito dopo l’omicidio si allontanarono da Ortì facendo perdere le loro tracce. Solo qualche mese dopo furono trovati e arrestati ma non ci sono documenti riguardanti il processo che possano fornire informazioni su eventuali condanne per i due giovani violenti.

Ciò che rende ancora più eroica la resistenza dei due sacerdoti alla mafia dell’epoca, è la consapevolezza dell’assenza di uno Stato che li tuteli e la solitudine che li avvolge, quando decidono di non subire la tracotanza dei malavitosi ma di tentare comunque di dare voce alle loro istanze di giustizia e libertà.

Don Giuseppe Giovinazzo, 53 anni, parroco a Portigliola, vicino a Moschetta, dove era nato, insegnante alla scuola media “Ferraris” di Locri, ed economo del Santuario di Polsi, fu ucciso la sera del 1 ottobre del 1998 mentre ritornava nella sua casa di Locri. I sicari lo aspettarono lungo la strada e appena videro la sua “Fiat 126” iniziarono a sparargli contro. Il sacerdote fu raggiunto anche da alcuni colpi in pieno viso. Fu un operaio forestale a trovare il suo corpo senza vita la mattina dopo.

Si indagò in varie direzioni per fare luce su un omicidio che impressionò molto sia la Chiesa che l’intera comunità. Per lungo tempo si pensò che la morte di don Giuseppe fosse legata al rapimento di Cesare Casella. La madre del ragazzo di Pavia, infatti, durante la sua permanenza nella Locride, si recò anche al Santuario di Polsi e proprio a don Giuseppe affidò tutto il suo dolore e la speranza di riuscire a riportare a casa suo figlio. Si ipotizzò che il sacerdote abbia tentato di mettersi in contatto con i rapitori del ragazzo e che questa opera di mediazione gli sia valsa la vita. Ma i magistrati che si occuparono del caso non riuscirono a dare un nome e cognome ai suoi assassini che ancora oggi sono impuniti.

A don Giovinazzo nell’ottobre scorso è stato dedicato un busto di marmo realizzato da Fuda a Siderno, che è stato posto davanti al Santuario della Madonna della montagna.

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