Suor Ann inginocchiata davanti ai militari
4 minuti per la letturaFa male anche alle nostre rotule vedere suor Ann Nu Thawng inginocchiata davanti ai militari nel tentativo, ignorato, di farli smettere di uccidere innocenti che protestano contro un golpe insopportabile.
Spesso mi chiedono, ma chi te la fa fare? Io non comprendo il contrario, invece: come non occuparsene, come non sentire sulle nostre ginocchia il dolore delle ginocchia altrui, anche quando questo pulsa dall’altra parte del globo terrestre?
In Birmania i generali improvvisamente stravolgono le vite di migliaia di persone, uccidono, umiliano, chiudono le bocche, chiudono le vite. Non vi girano le budella! Non vi si attorcigliano di fronte a quelle immagini, di fronte a suor Ann che staziona in terra davanti agli agenti, di fronte al colpo in testa che ha ucciso a Mandalay la campionessa di taekwondo di 19 anni, Angel, mentre protestava con la maglietta che riportava la scritta “Andrà tutto bene”?
Non è una storia da tg della sera, è quello che sta accadendo davvero. Se mi incammino e raggiungo quel paese posso vederlo con i miei occhi, toccarlo, posso rischiare di morire anche io. Come non sentire mio, questo dramma?
Patrick Zaki deve tornare a Bologna
Non è una storia della sera nemmeno quella di Patrick Zaki (e la sua come tante, intendiamoci), seppure dopo l’ultima sentenza sia già di nuovo sparita dai giornali.
Patrick deve tornare a Bologna. Me lo ripeto come un mantra ogni santo giorno. Perché è innocente, e che resti in carcere in Egitto è una vergogna anche nostra. Ci riguarda. Un concetto va ben oltre la questione politica, seppure questa andrebbe sempre ribadita tutte le volte, ovvero che l’Italia non fa nulla temendo di rompere la strettissima relazione commerciale ed economica con quel paese. Il fatto è che Patrick è uno di noi, e se tutti allungassimo un pochino lo sguardo dalla bella terrazza dell’anima – basta riaprirla, trovare la chiave e riaprirla – ci renderemmo immediatamente conto della semplice perfezione di questo postulato.
È uno di noi perché vive come noi, con noi, su questo benedetto pianeta. Se sta in prigione ci stiamo anche noi, perciò anche noi stiamo facendo altri quarantacinque giorni di carcere in Egitto. Non siamo disconnessi, seppure ci separano chilometri, strade, nuvole e piogge, fusi, fumi da camini e ciminiere d’Occidente, e dalle foreste di Oriente o in Africa, geli polari e sudori asiatici.
Stiamo tutti qua, e davvero il cielo è lo stesso, e il sole davvero sorge e tramonta su tutti quanti. Quando chiudiamo gli occhi altri miliardi di persone lo fanno, e tutti con quasi gli stessi pensieri in testa, e così quando li riapriamo. Se Patrick Zaki piange in carcere possiamo, dobbiamo sentire quei singhiozzi. Arrivano, se usiamo le orecchie. Siamo altrove, è vero, da noi giocano il Napoli o la Juventus, ma mentre i tacchetti delle scarpette di calcio solcano i campi degli stadi da un’altra parte altri tacchi camminano e corrono allo stesso modo, i muscoli si tendono e scattano per rincorrere un treno o s’allungano avambracci e polpacci per prendere, nell’identico modo, nel medesimo istante, quei biscotti in alto nello scaffale o quelli delle Nazioni Unite in un villaggio del Camerun per esempio.
Io scrivo con le dita, e sono le stesse che usa la sartina indiana a Calcutta, hanno lo stesso impensabile miracolo dentro. Le mani sono le stesse, stessa è la misteriosa scintilla che le mette in moto, stessi sono i respiri notturni che si levano nell’atmosfera e si incrociano: io sono, così, la sartina di Calcutta, lei è il giornalista italiano. Le connessioni sono sempre accese. Non (solo) quelle social, bensì chiare e anche misteriose, ma non per questo motivo non reali, congiunzioni.
È un perenne sfiorarsi di particelle, in perenne scambio tra terre e cieli del mondo. Se riesco ad accenderle, non dormirò se Patrick non dorme sul suo lettino, e io avrò gli stessi suoi occhi aperti. Le sue ossa rotte riuscirò a sentirle, così come le ginocchia di Ann a Myitkyina a nord di Myanmar.
Io sono seduto a una scrivania di una sperduta (rispetto alla sua visione) regione, Patrick allo stesso modo sulla sua brandina, Ann in chiesa dopo essersi inginocchiata, la sartina indiana alla sua vecchia Singer con i ricami orientali da terminare, e il padre di Angel al capezzale di sua figlia che aveva messo in conto di morire e ha lasciato scritto “donate i miei organi”.
Mi piace ricordare alcuni versi di una poesia di Camillo Sbarbaro: mi seggo tutto solo sul ciglio della strada/guardo il misero mio angusto mondo/e carezzo con man che trema l’erba.
Ecco, siamo così. Siamo cinque, siamo miliardi così: io, Patrick, Ann, la sartina, il papà di Angel. Siamo seduti in angoli separati della Terra, accarezziamo con mano che trema l’erba tutti allo stesso modo. Sappiamo che dall’altra parte, oltre quelle montagne, oltre quei fiumi, al di là di una barriera corallina qualcuno uguale a noi sta esistendo, gioendo, soffrendo, piangendo, e tutta questa esistenza ci riguarda perché insieme stiamo costruendo una medesima vicenda nella Storia del genere umano. Finché non sarà finita, qui, e ne verranno scritte altre, e altri accarezzeranno quell’erba.
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