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POTENZA – Quando i carabinieri hanno bussato alla porta di casa sua, un’antica palazzina popolare molto shabby e poco chic che dà su viale del Basento, all’altezza del passaggio a livello di via del Gallitello, per poco non dev’esserle preso un colpo. Di quel processo pendente in Tribunale per vendita di botti illegali in famiglia sembra proprio che si fossero tutti dimenticati. Forse persino l’avvocato. Figurarsi se a qualcuno è venuto in mente di chiedere una misura alternativa tipo l’affidamento ai servizi sociali. Cosa che peraltro le spettava di diritto.
E’ in carcere da poco meno di una settimana Franca D’Affuso, 52enne originaria di Sant’Arcangelo ma residente da tempo nel capoluogo dove gestisce un chiosco-rivendita di accessori per auto, “Accessoriamoci da Francy”, affianco all’edicola di fronte all’ingresso del deposito delle Ferrovie, sempre in via del Gallitello, a 40 metri in linea d’aria dall’abitazione.  Il suo è uno di quei casi che fanno riflettere sul sovraffolamento delle carceri e il funzionamento della giustizia più in generale, la stessa che nei distretti più piccoli come quello lucano non sembra sempre in grado di processare i cosiddetti “crimini dei colletti bianchi”, tipo abusi d’ufficio, episodi di corruzione, turbative d’asta e associazioni a delinquere specializzate nella sottrazione di soldi dalle buste paga di dipendenti per creare misteriosi fondi neri (tutte vicende arcinote di cui le cronache si sono occupate in questi anni, ndr). D’altra parte, arriva inesorabile anche alle misure estreme nei confronti di chi al posto di una colpa grave, se non gravissima, ne somma due più molto piccine, quando tra queste c’è pure la distrazione. Insomma, guai seri a prendere sottogamba i propri appuntamenti in Tribunale. 
Il fattaccio per cui la signora D’Affuso si ritrova detenuta nell’istituto penitenziario di Betlemme risale al periodo delle festività a cavallo tra il 2007 e il 2008. “Fattariello” sarebbe più appropriato, ma se la morale della storia è quella di cui sopra, passi “fattaccio” altrimenti chissà che succede. Nella sua piccola attività commerciale la signora vendeva, e avrebbe continuato a vendere fino alla scorsa settimana, perlopiù accessori per gli automobilisti: tappetini, panni e pezze per lavare vetri, saponi, deodoranti e quant’altro. Poi ci sono le immancabili magliette fac-simile, e all’occasione bandiere per tifosi dell’ultim’ora, materassini per bagnanti della domenica, palloni per sportivi a pasquetta e petardi per i festeggiamenti di capodanno. 
Già, i petardi. La causa di tutto sarebbero stati proprio alcuni “botti” scovati dai militari in vendita agli avventori del negozietto senza le autorizzazioni necessarie. Per chi ha più dimistichezza con la materia si tratta di “cipolle”: bombe carta con quantità di esplosivo variabile considerate al pari di veri e propri ordigni da guerra e per questo proibite dalla legge. Le pene per chi le fabbrica, chi le vende e chi le acquista sono molto pesanti: si parla anche di 12 anni di reclusione, quindi i 6 mesi affibbiati alla signora D’Affuso rendono meglio di qualunque altra cosa la reale portata delle accuse nei suoi confronti. Eppure anche 6 mesi, anche nel paese finito all’indice dell’Europa per il sovraffollammento dei suoi istituti di pena, possono diventare un grosso problema, se in Tribunale le cose non girano per il verso giusto.
Dopo la sentenza nei suoi confronti sono infatti trascorsi i termini perché la decisione diventasse definitiva, in mancanza di appelli o di ricorsi contro la stessa, e dal Palazzo di giustizia è partito un ordine di arresto in cui sia lei sia il suo legale venivano avvisati della situazione e del termine ultimo di 30 giorni per chiedere una misura alternativa al carcere tipo l’affidamento in prova ai servizi sociali o la semilibertà. Ma di questo in concreto non si sarebbe curato nessuno. Così è arrivata la disposizione ai carabinieri da parte della procura di accompagnarla nel carcere di Betlemme.
«Mia madre non ha fatto nulla». Sono state le uniche parole che ha voluto dire il figlio al Quotidiano davanti al chiosco gestito dalla madre. Di più ha aggiunto che del caso adesso si starebbe occupando un secondo avvocato, appena incaricato al posto del primo. A lui starebbe – adesso – di presentare un’istanza al Tribunale di sorveglianza per chiedere la scarcerazione della sua assistita. Quindi, nella migliore della ipotesi, tempo un’altra settimana la signora D’Affuso potrebbe tornare a casa sua. Invece in quella peggiore, se il giudice dovesse decidere un rinvio per valutare meglio le carte, i tempi rischiano di allungarsi anche di qualche mese, persino oltre il termine dei 6 mesi stabiliti nella sentenza. Non ci sarebbe nulla di cui stupirsi, spiega chi è addentro nei meccanismi del Palazzo di giustizia. Intanto il chiosco della signora anche ieri è rimasto chiuso tutto il giorno.     

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