Illustrazione di Roberto Melis
2 minuti per la letturaIn nessun testo del ‘900 si avverte meglio la necessità del silenzio quanto nella proposizione di chiusura del Tractatus logico-philosophicus di Ludwig Wittgenstein, pubblicato in Germania nel 1921: “Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere”.
Si deve tacere, osserva Wittgenstein, ovvero occorre consegnarsi al silenzio e all’afonia per fare spazio al Mistico, che, nell’algido rigore logico delle proposizioni del Tractatus, si mostra e non si dice.
Il silenzio è indispensabile e deve essere protetto, come ha osservato Ugo Volli in un bel libro di tre decenni addietro (Apologia del silenzio imperfetto. Cinque riflessioni intorno alla filosofia del linguaggio, Feltrinelli, 1991), quasi fosse una specie rara, perché rischia di essere travolto dall’inflazione semiotica che ci circonda.
Rumori e suoni dappertutto, segni che di continuo si impongono e ci sovrastano, tanto da far desiderare la quiete degli antichi esicasti, i quali ben sapevano che per ascoltare la parola di Dio il silenzio è necessario.
La Parola (in questo caso con la maiuscola) per i monaci nasce dal silenzio e soltanto nel silenzio si degusta, insostituibile cibo spirituale, dopo aver messo a tacere, insieme con le labbra, anche il cuore. I monaci sono, non a caso, gli “specialisti del silenzio”, come la lunga tradizione eremitica e cenobitica attesta. Sottili distinzioni elaborate dal monachesimo: il piccolo e il grande silenzio.
Per i Benedettini il grande silenzio comporta la proibizione assoluta di parlare e suoi luoghi sono la chiesa, il dormitorio, il refettorio e la cucina; il piccolo silenzio prevede, invece, la possibilità di pronunciare delle parole, sebbene dolcemente e, si noti l’ossimoro, “silenziosamente”.
Nel monachesimo certosino luogo del grande silenzio è il chiostro, lungo il quale sono disposte le celle dei padri claustrali, isole di silenzio dentro quella grande isola silente che è il monastero.
Eppure, il silenzio è anche una materia ambigua, sfuggente, vischiosa, in cui è facile ritrovarsi prigionieri di contraddizioni e aporie. Il silenzio di pace dei monasteri – lo ha osservato David Le Breton – ha convissuto e convive nelle nostre società con un altro silenzio, un silenzio d’angoscia, reso “necessario” perché molte volte imposto, obbligato. E questo è un silenzio di paura, di omertà, di morte, quello degli occhi che non vedono e delle orecchie che non odono.
Esistono molteplici luoghi a far da teatro e da scena muta per quest’ultima tipologia del silenzio: spazi pubblici e privati, case, strade e piazze, persino tribunali. Luoghi in cui il silenzio può farsi omissione e complicità (volontaria o involontaria, estorta o convinta, scelta o imposta).
Non più predisposizione all’ascolto e apertura (all’altro, a Dio, al proprio io), ma un tacere che è chiusura, un mutismo che spaventa e che si incarna in parole quali acquiescenza, passività, timore, tutte forme di una inaccettabile riduzione e costrizione al silenzio.
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