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Nicola Zingaretti

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Un discorso asciutto, ma non scarno, con sentimento, ma senza sentimentalismi. Mario Draghi esordisce all’altezza delle aspettative con un intervento molto politico, non tanto perché attento a non sovraesporre temi divisivi (ma a qualche stoccata si è pur lasciato andare), bensì perché ha esposto un programma di prospettiva su cui edificare, o almeno provare a edificare un’unità del paese per quella che ha chiamato senza infingimenti “una ricostruzione”

Chi ha sottolineato come abbia esposto temi che un po’ blandivano le sensibilità e le scelte dei vari schieramenti, non tiene conto del fatto che tutti i temi su cui si è dibattuto negli ultimi decenni erano quasi sempre quelli giusti. Non lo erano le soluzioni abborracciate che si proponevano e l’illusione che tutto si risolvesse semplicemente dichiarando che adesso i problemi sarebbero stati risolti una volta per sempre.

Il programma che è stato presentato va ben al di là di quello che potrà concludere il suo governo: lo ha detto chiaramente, quando ha ricordato che per molte cose l’orizzonte è il 2026, per altre addirittura il 2050. Non sono orizzonti per la sua permanenza a Palazzo Chigi, ma per un’opera che Draghi si impegna a mettere sui binari giusti e poi il sistema-Paese nel suo complesso dovrà impegnarsi a portarla a compimento.

I partiti della sua amplissima maggioranza rispondono che sono d’accordo, ma troppi fra essi credono che il nuovo premier abbia semplicemente dato loro ragione, alcuni che sia lì addirittura per continuare quel che si è messo in cantiere durante questa legislatura. Ovviamente non è così, al di là dell’onore delle armi che una persona educata non manca mai di tributare retoricamente al suo predecessore. Del cambio di passo necessario per i partiti non ci sono ancora prove solide.

La riproposizione del blocco che per consuetudine definiamo di centrosinistra, l’intergruppo PD-M5S-LeU, non è una mossa azzeccata, perché contraddice a quanto ha richiesto Mattarella ed ha riproposto Draghi: un governo che si muova a prescindere dal riferimento ad una formula politica.

L’evidente intenzione, per altro anche esplicitata, di agire in quel modo per evitare un “predomino della destra” nel nuovo esecutivo, che peraltro non si vede come potrebbe realizzarsi vista la sua composizione, di fatto propone un tentativo di colorazione della nuova compagine. Questo è poco sensato, anche perché non si tratta di un blocco governabile come si è visto più volte in passato.

Lo scopo ultimo per la verità non è quello di condizionare un governo che ha un premier forte, contornato da un gruppo di ministri che non dovrebbero essere sensibili alle sirene dell’agitazione politica (che ha ripreso a muoversi).

Piuttosto punta più banalmente a tenere insieme una coalizione che possa puntare alla vittoria nelle prossime elezioni comunali. Ciò è stato subito colto da Giorgia Meloni, a cui non manca certo il fiuto politico. La leader di FdI ha subito proposto che analogamente faccia blocco il centrodestra per affrontare quella prova, mettendo fra parentesi la attuale diversa collocazione parlamentare nei confronti del governo, che hanno i partiti di quell’area.

Subito alcuni esponenti di IV si sono buttati a dire che ciò apriva “praterie” per i partiti centristi, fingendo di non sapere che il centro è forte solo se può essere determinante, il che per ora è tutto da dimostrare. Si potrebbe cavarsela a questo punto notando che è tutto frutto della politica politicante che non ci si poteva aspettare smontasse le proprie tende solo perché è stata costretta a subire l’avvento di uno schema politico che prescinde dalle sue fumisterie: è ancora un po’ di folklore che non concluderà molto.

Non sappiamo però se sarà davvero così, perché la “ricostruzione” che Draghi ha prospettato non è un’operazione che si possa realizzare senza un sostegno largo delle forze politiche. Quando il nuovo premier dice che c’è bisogno della cooperazione del parlamento al suo disegno riformatore non usa una formula retorica, ma si mostra consapevole di una situazione.

Se, tanto per fare due esempi, per ricostruire ci sarà bisogno di non sprecare denari per sostenere industrie decotte, se il rilancio della scuola passerà per la revisione degli orari degli insegnanti, come non sapere che i molti privilegi, anche ben sindacalizzati, che sono presenti in quelle aree si metteranno di traverso? Basta pensarci un attimo e si vedrà quanto si moltiplicheranno casi come questi per molti settori dove si giocherà l’impresa di far cambiare passo al paese. E quelle resistenze non devono trovare sponde in forze politiche assetate di consenso.

È evidente che non è pensabile che si congeli la dialettica politica, ma sarebbe necessario che questa possa essere distolta dal confronto astrattamente bipolare fra presunti buoni e presunti cattivi. La proposta avanzata da Draghi nel suo discorso al Senato non è un libro dei sogni, ma un serio programma riformatore, che unisce una rigorosa analisi dei nostri ritardi con la proposta di un metodo per avviarne il superamento.

Ora il riformismo è appunto un metodo di lavoro che presuppone la capacità di procedere per gradi alla risoluzione dei problemi: tenendo molto conto dei costi umani che ogni riforma comporta (e andrebbe dato atto a Draghi della sensibilità che mostra su questo terreno), ma anche sapendo che non si andrà lontano se si pensa di combinare qualcosa fermandosi ad una riverniciata al vecchio edificio in modo da non scontentarne gli inquilini.


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