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Il nostro è un grande Paese. Capace di far vibrare le corde del cuore. Di consegnare, nei riti secolari che si rinnovano, sentimenti di orgoglio e di grande emozione.  Come è avvenuto ieri tra i palazzi del potere trasformatisi per un giorno in luoghi di grande umanità. E’ un dato, a me pare, non smentibile. Come lo è  il grande balzo in avanti che si è registrato in questi trenta giorni di crisi passando dal  baratro alla riconquista della speranza. Questa nostra l’Italia nel mondo ha offerto una grande prova di democrazia e di responsabilità. Merito soprattutto di Sergio Mattarella. Il Capo dello Stato, nel momento più grave del suo settennato, ha assunto straordinarie decisioni in grande solitudine. Il suo monito, all’indomani del fallimento dell’incarico esplorativo al presidente della Camera Roberto Fico, resta scolpito nella mente di quanti vedevano far scivolare l’Italia verso un disordine inarrestabile. E’ stato allora che il presidente della Repubblica ha chiamato Mario Draghi perché potesse restituire credibilità alle Istituzioni fortemente mortificate dalla litigiosità delle forze politiche. Indiscutibile il prestigio del “convocato”. Gli incarichi ricoperti con assoluta competenza e grande rigore hanno subito segnato l‘attesa svolta. La Repubblica dei partiti in crisi è stata messa a tacere, confinata nell’angusto spazio del perenne balbettio inconcludente. La lezione è stata recepita. Monito di Mattarella, indiscusso prestigio di Draghi, necessità di fare fronte comune alle gravi emergenze del Paese hanno scandito i giorni che hanno preceduto la formazione del nuovo governo che ieri ha giurato sull’Alto Colle. 


Il neo presidente del Consiglio ha agito con grande prudenza e con realpolitik. Ha risposto con il silenzio a coloro che si sono sbizzarriti nel mettere sul bilancino un governo tecnico contrapposto ad un governo politico. Discussione sterile che interpreta, comunque, il livello superficiale del confronto. 

In realtà, come sostiene anche il nostro Sabino Cassese, ma non solo, nel momento in cui si agisce con concretezza nell’interesse del Paese tutto diventa  politico, anche se chi agisce non è iscritto ad alcuna forza politica. Il governo Ciampi che portò l’Italia in Europa ne fu un chiaro esempio. Semmai si può dedurre che dovendo ricevere la fiducia del Parlamento, Draghi non poteva rischiare di non ottenerla per dare  seguito al governo da lui voluto. Da qui un comprensibile compromesso tra vecchio e nuovo, tra tecnici e politici. Tuttavia leggendo la lista dei ministri, le deleghe del potere reale, quelle che gestiscono la borsa, i ministeri economici, sono sotto lo stretto controllo del presidente del Consiglio. Al di là delle disquisizioni del momento, l’esecutivo appena nato risponde ad una serie di gravi problemi che bussano alla porta: la pandemia che non accenna a essere sconfitta. L’urgenza di dare risposte all’Europa con la definizione del Recovery fund, la terribile crisi che coinvolge l’economia nazionale che è giunta oggi a livelli disastrosi. Sono questi i motivi veri per cui è stato possibile, come da noi auspicato in tempi non sospetti, un governo di unità nazionale, così come era avvenuto negli anni del dopoguerra. La discesa in campo di Mario Draghi, la sua autorevolezza, il suo essere interlocutore del mondo, come dimostrano i consensi ricevuti da molti capi di Stato, la soggezione dei nani della politica italiana, hanno reso possibile la fase nuova. 
   
In questa fase di trattative per la formazione del nuovo governo un elemento molto significativo va evidenziato. Il silenzio di Mario Draghi. Egli  non ha offerto motivi per inquinare il lavoro che stava compiendo. Non una sola parola  ha pronunciato in questi giorni, non un cenno che potesse far intendere gli obiettivi che si era posto. Un silenzio indice di capacità di autonomia, ma anche carico di grande responsabilità. Per la prima volta, rispetto alle giostre del passato, si è giunti alla formazione del governo con una riservatezza sciolta solo qualche attimo prima della lettura dei ministri proposti al Capo dello Stato. Questo agire ha messo in difficoltà anche il mondo dell’informazione che ha dovuto disegnare scenari poi smentiti o sbizzarrirsi in inchini a volte sopra le righe. E’ indubbio il miracolo fatto dal duo Mattarella-Draghi, la grande attesa che viene riservata al neo governo del Paese, la speranza che il percorso che esso ha davanti subirà un’accelerazione diversa rispetto al passato, ma sarebbe grave errore compiere fughe in avanti che potrebbero anche riservare probabili delusioni, Di qui il riconoscimento ai silenzi del neo presidente del Consiglio che. come ha dimostrato negli incarichi ricoperti nel passato, è protagonista nella concretezza.         


All’indomani della lettura di Draghi della lista dei ministri si è avviata una discussione sul peso del numero dei ministri tra quelli rappresentanti il Nord e quelli di provenienza meridionale. Discussione concettualmente inutile che nasconde un vecchio modo di porre il problema del divario tra Nord e Sud. Se infatti la soluzione della questione meridionale dovesse dipendere dalla territorialità dei ministri nulla cambierebbe. Di fatto anche quando nel governo, e nel Parlamento, la rappresentanza era in maggioranza meridionale,  il Mezzogiorno non ne ha tratto alcun vantaggio se non parole e promesse. Ora, invece, il Sud può sperare con Draghi in una rinascita che dia valore alle risorse meridionali e allentare le distanze con le zone più produttive del Paese. Il neo presidente del Consiglio, infatti, è indiscussa personalità che conosce il mondo del credito e le distorsioni che esso può causare se gestito male. Nel Mezzogiorno il credito accusa una debolezza strutturale ed è corresponsabile della mancata osservanza della questione morale. Nel primo caso la rete creditizia locale è stata completamente smantellata, come è accaduto con lo scippo del Banco di Napoli diventato banca Intesa san Paolo Torino e della Bper che dal Mezzogiorno ha raccolto i maggiori capitali per espandersi in Emilia e Romagna. O come è avvenuto per la Banca Popolare di Bari che ha messo in ginocchio migliaia di piccoli risparmiatori.

A Draghi non sfugge questa realtà che peraltro ben conosce. Né può sfuggire che la differenza di tassi di interesse tra del credito tra nord e sud comporta tassi quasi usurai. Di qui il ricorso, in particolare nei momenti di grande crisi economica come quella causata dalla pandemia da Coronavirus, del ricorso ai cosiddetti “cravattari” che alimentano la criminalità organizzata. Acquisti sospetti di alberghi e residenze turistiche, invasione di catene di supermercati in odore di camorra, ndrangheta e mafia, sono la radice del male di un Sud prigioniero del malaffare a volte complice sella corruzione di una inadeguata classe dirigente. Un  ministro, anche se meridionale e attento come Mara Carfagna, non è sufficiente a vincere la guerra del Sud. Occorre ben altro. Anche su questo è attesa la risposta del nuovo governo. I poteri criminali si muovo in direzione delle risorse da utilizzare. Il Recovery fund è anche per loro una grande occasione da aggredire. E’ anche questa la sfida del premier Draghi.  

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