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Un dettaglio della rivisitazione de l’Ultima Cena, il capolavoro di Leonardo da Vinci, firmata Frida Kahlo

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Da sempre la storia dell’alimentazione e quella dell’umanità sono state strettamente connesse. Tutti infatti abbiamo bisogno di nutrimento (e quindi di assumere glucidi, lipidi, proteine, sali minerali, vitamine, acqua, tutte sostanze presenti nei prodotti naturali che fanno parte dell’ambiente), sostanze che è possibile ingerire solo sotto forma di alimenti, cioè di prodotti naturali culturalmente costituiti e valorizzati, trasformati e consumati nel rispetto di un protocollo d’uso fortemente socializzato. Ma c’è di più. La stessa storia della medicina – e della cura – è intrisa di riferimenti all’alimentazione; anzi, pare addirittura essere nata con il cibo.

La nascita della medicina, a Oriente e a Occidente, ha infatti proprio nell’uso dei cibi il suo elemento fondante. L’antico ideogramma cinese Yi, che indica medicina, è composto, in alto, dall’immagine di un uomo malato e, in basso, dal carattere Jiu, che vuol dire vino, appunto inteso come medicina. Nel Huang Di Nei Jing, il classico che fonda la medicina cinese, la cui redazione è coeva a buona parte dei testi del Corpus hippocraticum (V sec a.C.), la centralità del cibo viene così sintetizzata: “Cura con i farmaci, guarisci con i cibi”. Ancor oggi la dietetica, che nei secoli è stata organizzata in un sistema complesso, occupa un posto centrale nel sistema medico conosciuto con il nome di Medicina Tradizionale Cinese, che riscuote oggi larga diffusione anche tra i medici e le culture occidentali. Ippocrate, nel trattato Antica medicina, testo cruciale per la fondazione di una medicina che aspira a dotarsi di basi razionali, fa coincidere proprio la nascita della medicina con la capacità di distinguere l’alimentazione dell’uomo sano da quella dell’uomo malato. “Non sarebbe stata scoperta l’arte medica – si legge in Antica medicina – né sarebbe stata ricercata, se avesse giovato ai pazienti lo stesso regime e l’ingerimento delle stesse sostanze che mangiano e bevono i sani.” Spinti da questa necessità, gli uomini si ingegnarono a trasformare e a produrre cibo: “Bollirono, cossero, mescolarono e temperarono le sostanze forti e intemperate con quelle più deboli, conformandole tutte alla natura e al potere dell’uomo.”

Eppure mangiare non ha, ovviamente, solo una funzione fisiologica. Da tempo questo atto che apparentemente è così naturale è al centro dell’attenzione di molti studiosi, interessati agli aspetti che prescindono la soddisfazione dei bisogni nutritivi delle persone. I riti legati all’alimentazione hanno infatti una funzione strutturante nell’organizzazione sociale di un gruppo umano sia che si tratti di attività di produzione, di distribuzione, di preparazione che anche in quella di solo consumo. Il cibo diventa così oggetto centrale del sapere socio-antropologico, analizzato in quanto tale da un gran numero di ricercatori di scienze sociali e umane, etnologi, sociologi, antropologi, geografi, storici e psicologi.

Il cibo e, più in generale, i riti connessi all’alimentazione fanno insomma parte della nostra quotidianità in maniera importante. Abbiamo interiorizzato il concetto di commensalità, che in fondo è uno dei pochi tratti distintivi della specie umana nel mondo animale. È anche il mangiare assieme che fa di noi “animali sociali”, anche se il ruolo dei presenti alla stessa tavola non è sempre stato il medesimo. Sembra che fino all’inizio del Seicento non si pensava che le persone sedute alla stessa tavola dovessero mangiare gli stessi cibi o bere le stesse bevande. L’agronomo Olivier de Serre, per esempio, consigliava al suo gentiluomo di campagna di fornirsi di vino di qualità inferiore per gli ospiti di bassa condizione, che avrebbe potuto accogliere alla sua tavola, per risparmiare il vino buono e conservarlo per sé e i suoi ospiti di riguardo. Allo stesso modo, i trattati di buona educazione erano pieni di raccomandazioni sui cibi o sui bocconi da presentare al padrone di casa e ai grandi personaggi che onoravano la tavola della loro presenza.

L’evoluzione dell’attenzione per il cibo e l’alimentazione è letteralmente esplosa da qualche tempo, anche grazie all’utilizzo dei social network. È così che la condivisione dei riti della preparazione e del consumo alimentare sono diventati talmente frequenti da far ricorrere gli specialisti della comunicazione al neologismo anglofono “Foodporn” per giustificare l’enorme attenzione dedicata al tema. Una attenzione, se possibile, che è addirittura cresciuta con l’avvento della pandemia da Covid19, che di fatto ha statuito l’impossibilità di condividere pasti tanto in luoghi pubblici quanto, in misura leggermente ridotta, in quelli privati. All’improvviso siamo rimasti senza una delle cose che ci sembrava fossero normali e scontate: organizzarsi per mangiare assieme, uscire per una pizza, un gelato, una spaghettata. O restare a casa ma per scelta, circondati da amici e conoscenti con l’unico limite imposto dai posti a sedere a tavola. La pandemia impone distanza, e mangiare assieme è una delle cose che invece ci avvicinano di più.

Non è questa ovviamente la sede adatta per parlare delle ripercussioni economiche imposte da questo stop alla socialità e alla commensalità. Ma certamente questa impossibilità a condividere spazi, modi e tempi di consumi alimentari influisce negativamente sulle nostre capacità di costruire relazioni sociali importantissime per le nostre vite. Senza relazioni siamo un po’ menomati, siamo più fragili, siamo più a rischio. In questa difficile fase della nostra vita abbiamo forse imparato tutti a dedicare un po’ più tempo alla cucina, complice anche il confinamento forzoso: ecco, a voler vedere il bicchiere mezzo pieno, questa pandemia ci lascerà forse la consapevolezza che dedicare più tempo e più cura alla preparazione dei nostri cibi può essere salutare da molti punti di vista. Un approccio più lento alle cose della vita anche in cucina, in netto contrasto con una cultura che ha fatto per anni l’elogio del microonde e dei piatti pronti. Per farci tornare insomma un po’ alle origini, quando la preparazione dei cibi era un rito che accomunava figure differenti e il momento del pasto era anche un modo di comunicare, e non un semplice apostrofo nella frase “faccio la pausa pranzo”.

Se l’alimentazione è cura, insomma – come dimostra appunto la stessa storia della medicina in tutte le culture del mondo – la medicina è proprio quella di costruire sane relazioni sociali legate ai riti dei consumi alimentari. Perché è certamente importante quello che si mangia, ma è altrettanto importante come e con chi si consuma il nostro rito quotidiano dell’alimentazione.


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