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Matteo Renzi

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Si sono innamorati di lui manco fosse Enrico Berlinguer. «Perché Giuseppi – si sente nei pour parler di Montecitorio – è il perfetto cattocomunista, colui che tiene insieme il moroteismo e il berlinguerismo». Insomma, se solo ci fosse stato in quel maledetto 1978 sarebbe stato lui, l’avvocato Giuseppe Conte, il presidente del Consiglio del «compromesso storico», che avrebbe aperto le porte del governo a via delle Botteghe Oscure.

Dicevamo che loro, gli ex per eccellenza – ex Pci, ex PDS, ex DS – sono rimasti folgorati da questo inquilino di Palazzo Chigi che prima si è seduto per circa un anno al tavolo con Matteo Salvini e Luigi Di Maio, nel governo più a destra della storia della Repubblica, e poi è stato abile e rapace a riformulare la maggioranza e la squadra aprendo agli eredi del PCI. Si dirà, Nicola Zingaretti è stato l’ultimo ad accettare la nascita di un esecutivo giallorosso con premier Conte.

Il segretario dei democratici caldeggiava le elezioni nell’agosto del 2019, preferiva riaprire i seggi per de-renzizzare i gruppi parlamentari. Al più avrebbe gradito un esecutivo con un altro premier. Eppure, a distanza di diciassette mesi il numero uno del Nazareno invoca sì un patto di legislatura per far ripartire l’azione di Palazzo Chigi ma sempre con «Giuseppi».

In sostanza, qualsiasi soluzione per risolvere l’impasse non può non prescindere da Conte. E cosa dire di Massimo D’Alema, testa pensante della sinistra italiana, il primo comunista a raggiungere lo scranno della presidenza della Consiglio, che definisce l’avvocato del popolo « l’uomo più popolare del Paese». Da sottovalutato a più popolare del Belpaese.

Da avvocato dello studio Alpa a «riferimento dei progressisti italiani» (copyright Nicola Zingaretti, intervista al Corriere della sera del 20 dicembre 2019). La sinistra si compatta attorno a questo presidente del Consiglio che deve la forza alla sua fragilità e si muove con il piglio del dicì che guarda a sinistra. Non a caso nella sua prima intervista disse di «aver sempre votato a sinistra». La cosa, va da sé, non dispiace agli alti dirigenti del Nazareno, quasi tutti di rito ex comunista. E non dispiace nemmeno a quel Dario Franceschini che è cresciuto nella sinistra democristiana, essendo stato il figlioccio di Benigno Zaccagnini.

Fra i tifosi di «Giuseppi» ecco spuntare Pierluigi Bersani, già dirigente del PCI, poi dei DS e infine segretario del PD prima della svolta nel segno della rottamazione dell’ex sindaco di Firenze. «Conte è di sinistra? De Gasperi era uno di centro che guardava a sinistra. Adesso non sto dicendo che Conte è De Gasperi, non esageriamo. Però in questo paese abbiamo una tradizione di posizioni di culture politiche centriste che sanno che devono guardare verso i grandi temi sociali». Si scorre l’elenco e si giunge anche alla voce O, che sta per Occhetto Achille. A lui si deve, durante il 1990, la cosiddetta svolta della Bolognina.

E cosa dice oggi il primo segretario del Partito democratico della sinistra? Al Fattoquotidiano ha risposto così: «Guidare un governo così ibrido, nato nell’emergenza per tagliare le unghie alla Bestia, impone dosi da cavallo di mediazione. L’unica tachipirina possibile per tenere insieme gli opposti». Senza dimenticare l’ideologo del PD, quel Goffredo Bettini che fino ieri predicava «Conte è il pilastro dell’attuale alleanza che ha lavorato bene e che per il PD non ha alternative».

Dunque Conte e la sinistra sembrano essere un unico blocco in questa delicata fase di crisi di governo. Simul stabunt, simul cadunt. Le trattative vanno avanti. Il Recovery Plan è in arrivo sui tavoli dei partiti che compongono la maggioranza. Sotto traccia, prosegue il gioco di incastri: rimpasto, Conte-ter, sfida in aula premier-Renzi. Sono questi i tre scenari. Sembra risolta la questione servizi segreti: il presidente del Consiglio avrebbe deciso di nominare una figura terza al quale affidare il dossier 007. Starebbe tramontando l’ipotesi di Roberto Chieppa, oggi segretario generale di Palazzo Chigi. Salgono invece le quotazione di Lorenzo Guerini, che resterebbe alla Difesa ma gli verrebbe consegnata anche il delicato dossier dei servizi.

E Matteo Renzi? Il leader di Iv tiene alta l’asticella: «A noi non interessano le poltrone». Sarà vero? In privato l’ex rottamatore caldeggia le dimissioni del presidente del Consiglio e dunque invoca un Conte-ter perché a quel punto il premier dovrebbe prima dimettersi. Le truppe renziane però nicchiano. Maria Elena Boschi gioca una partita a sé, forte del rapporto con l’avvocato, e punta a un ministero strategico: Infrastrutture o Lavoro. E raccontano che nella chat dei renziani ai messaggi del leader di Iv non corrisponda più il coro di «bravo, Matteo», «sei il numero uno, Matteo». Al netto dei fedelissimi sono tanti i deputati e senatori che preferiscono restare in silenzio, in imbarazzo per la strategia del capo di Rignano. E allora come finirà? Oggi il PD riunirà la direzione nazionale. Ordine del giorno: situazione politica. Ieri c’è stato un confronto all’interno del gruppo del Senato dei democratici.

In sintesi la linea è: «Conte non si tocca. No al Conte-ter, sì a un rimpasto, senza salita al Colle». Nell’attesa il presidente del Consiglio prende tempo, smussa, lima, media, e a sera invia il Recovery Plan ai vari partiti. Nelle prossime 24 si capirà come andrà a finire. Certo è che un decano del Parlamento avverte: «Ho la sensazione che se non si passa da un Conte-ter le parti non si incontreranno mai». Risultato? Tutto può ancora succedere. Eppure Conte non avrebbe mai immaginato di ritrovarsi al suo fianco tutta la ditta degli ex comunisti. Ne consegue che non si tratta più di Conte versus Renzi. Ma la sfida è fra la ditta degli ex comunisti e il senatore di Rignano.


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