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Lo spirito italiano invece è pervaso dal miope egoismo dell’ultimo ventennio. E non si fa nemmeno finta a parole di volere cambiare registro. Che Paese è quello che investe per l’istruzione 74 euro pro-capite nel Centro-Nord e 46 nel Sud e che fa ancora peggio con la sanità? Se non si mette il Mezzogiorno al centro di tutte le missioni del Recovery Plan per l’Italia si prepara una crisi sociale senza precedenti e neppure le iniezioni di liquidità della Bce potranno evitare la crisi finanziaria. Saremo costretti a fare ancora di più i conti con un equilibrio instabile pericolosissimo perché figlio di una persistente, incomprensibile, redistribuzione a favore dei ricchi. Se l’Europa si convince che l’Italia resta bloccata nella palude della sudditanza psicologica chiude i rubinetti e non le si può dare neppure torto

Il problema competitivo italiano degli ultimi venti anni si chiama Mezzogiorno. Lo sanno tutti, ma pochi se ne occupano fattivamente. Siamo arrivati nel silenzio complice di tutti a un reddito pro capite di venti milioni di persone che è pari a poco più della metà degli altri quaranta milioni. Il problema ha cause complicate che risiedono nello sgretolamento di un’idea di nazione con la scelta scellerata di un regionalismo improntato al più miope degli egoismi e il conseguente federalismo della irresponsabilità che toglie risorse di sviluppo ai poveri e regala spesa buona e molto assistenzialismo ai ricchi.

C’è stata e sopravvive fino a oggi una sottostima del problema da parte del Centro-Nord anche per calcoli interessati di breve termine, favorita da una classe dirigente di governo dei territori meridionali quasi mai all’altezza della situazione. Non emerge la consapevolezza comune che oggi la priorità italiana è il Mezzogiorno. Fare funzionare bene la giustizia a partire dai suoi tribunali abbandonati. Sanare la ferita purulenta dei diritti di cittadinanza negati della scuola e della sanità. Tornare a fare investimenti pubblici a partire dai treni veloci anch’essi negati e da una piattaforma logistica che metta in rete porti e retro porti restituendo all’Italia la sua leadership nel Mediterraneo. Mettere al centro di un disegno organico il capitale umano, le università, la ricerca.

Diciamocela tutta. Ma che Paese è quello che spende a prezzi costanti per gli investimenti in conto capitale 74 euro pro capite nel Centro-Nord e 46 euro nel Sud per l’istruzione? Che arriva addirittura a spendere per gli investimenti fissi in sanità 84,4 euro pro capite per i cittadini emiliano-romagnoli e 15,9 per i cittadini calabresi? Che futuro può avere un Paese così diseguale per miope convinzione, a sua volta frutto avvelenato di un insuperabile egoismo?

Siamo a fare i conti con un doppio bivio della storia che ha segnato in modo indelebile il declino italiano. Il primo risale alla metà degli anni Settanta quando la Dc ha voluto coinvolgere il PCI nel governo reale del Paese e, non potendolo portare nell’esecutivo, ha favorito con il trucco della spesa storica le sue amministrazioni territoriali emiliano-romagnole e toscane mettendo le basi di un divario della spesa tra Sud e Centro decisamente anomalo. A quella stagione politica che parte con la Solidarietà nazionale e ha il merito di disinnescare la bomba del terrorismo e della crisi sociale, si devono anche un regionalismo dissipatore e la riforma Anselmi della sanità. Si posero così le basi dei venti staterelli e delle venti sanità con cassa incorporata per tutto e motore della spesa storica come moltiplicatore delle diseguaglianze.

Il resto lo ha fatto in una stagione successiva la destra lombardo-veneta a trazione leghista.

Tutto accade quando Berlusconi sceglie Bossi e chiude con Fini e Casini, che lo logorano ai fianchi, perché la Lega diventa la golden share della coalizione e il Cavaliere è costretto ad accettare di “rompere i confini” per tenere insieme i cocci della sua alleanza politica. La presa di potere avviene quasi impercettibilmente, ma consolida e moltiplica il vantaggio della spesa storica inventato dal PCI e dai suoi eredi per le loro amministrazioni. Perché lo sottrae dalle fatiche delle negoziazioni della legge di bilancio e lo rende, come già detto, una specie di pilota automatico incorporato nella legge del federalismo fiscale di Calderoli (2009) abilmente inattuata proprio per favorire di proposito i ricchi e, cioè, le amministrazioni tosco-emiliane e lombardo-venete.

In questa stagione scompare dalla scena nazionale la classe politica meridionale e quella del centro non ha un erede all’altezza di Andreotti nelle negoziazioni di potere. Questa nuda e cruda è la storia (vera) del declino italiano che è arrivata a un tale livello di infiltrazione nei gangli di comando del Paese da determinare una sudditanza psicologica della politica e dell’economia ai potentati emiliano-romagnoli e lombardo-veneti. Si è arrivati fino alla teorizzazione che dei due motori italiani al massimo se ne poteva salvare uno, quello del cosiddetto Nord produttivo. Che il secondo motore (il Sud), dipinto come una specie di idrovora della spesa pubblica, avrebbe dovuto spicciarsela da solo e/o comunque avrebbe agito per emulazione.

Oggi abbiamo, dopo quasi un ventennio, una compagine di governo composta prevalentemente da uomini meridionali. L’attuale premier, Giuseppe Conte, è il primo presidente del Consiglio che è intervenuto alla presentazione dell’annuale rapporto della Svimez sull’economia del Mezzogiorno e ha scritto ben tre lettere al nostro giornale per condividere e sottoscrivere l’operazione verità lanciata dal “Quotidiano del Sud – l’Altravoce dell’Italia” sulle distorsioni della spesa pubblica sociale e infrastrutturale tra le due aree del Paese.

Il commissario per l’economia dell’Europa, Paolo Gentiloni, ex premier, è romano come lo è il Presidente del Parlamento europeo, David Sassoli. Sono tutti e due del Pd che è, a sua volta, nelle mani di Nicola Zingaretti, presidente della Regione Lazio e segretario del partito. Nonostante ciò non succede nulla. Scuola, sanità, trasporti, terapie intensive, vaccini, le Italie restano due, la forbice della spesa si allarga, nessuno spezza il circolo perverso del declino italiano.

Non c’è istituzione economica, statistica, contabile della Repubblica italiana che non abbia certificato dimensioni e qualità del male italiano, ma non succede mai nulla. La nostra inchiesta giornalistica è diventata un libro (La grande balla) e ha determinato una commissione di indagine parlamentare presieduta da Carla Ruocco. In quella sede, l’attuale ministro per gli Affari regionali, Francesco Boccia, rispondendo alla Ruocco che parlava dei 60 miliardi l’anno di spesa pubblica sottratta dal Nord al Sud, ha dichiarato testualmente: “Presidente, la correggo, non sono 60 i miliardi che ballano ma 61,5”. Non succede niente.


In Europa assistiamo al risveglio di un entusiasmo egualitario. Si prova a costruire uno spirito europeo in cui siamo tutti in partenza uguali. Un primo tentativo si è visto proprio con la distribuzione dei vaccini comprati per tutti dall’Europa e distribuiti in proporzione alla popolazione a ognuno dei 28 Paesi per cui questa volta rumeni e portoghesi hanno gli stessi diritti dei tedeschi. Non è così in altri campi e la strada da percorrere anche in Europa è molto lunga, ma si è capito che bisogna cambiare strada e che bisogna fare debito comune.

Si è consapevoli in Europa che bisogna aiutare l’Italia a capire che il suo problema è il divario interno e a investire nei territori in ritardo gran parte del fondo perduto europeo. Per fare banda larga ultra veloce e molto altro e prima ancora per fare quelle riforme che restituiscano al Paese tutto la capacità di spesa e il superamento delle distorsioni intollerabili della sua giustizia. Hanno dato all’Italia più soldi di tutti essenzialmente per questa ragione.

Purtroppo, in casa nostra non succede nulla. Perché lo spirito italiano è talmente pervaso dal miope egoismo che ha segnato l’ultimo ventennio da fare apparire anacronistico anche l’ultimo appello della storia. A Milano siamo alla quinta metropolitana, a Roma si fa fatica a fare finanziare la prima vera in corso di realizzazione. Tra Milano e Torino c’è un treno veloce ogni venti minuti, non ce ne è nemmeno uno vero all’anno da Napoli a Reggio Calabria.

L’indice di agibilità degli edifici scolastici nel Sud è al 14% e nel Centro-Nord al 64%, il tasso di disoccupazione comprensivo di cassintegrati a zero ore e di chi non cerca più un lavoro ma lo vorrebbe è del 27,6% al Sud e del 9,1% al Centro-Nord. L’Europa prova a ringiovanirsi e noi che siamo europeisti convinti ma non fessi, segnaliamo il cambiamento e mettiamo in guardia dal vigilare che non sia di facciata.

Questo rischio in Italia non c’è perché lo spirito dominante è vecchio e non si fa nemmeno finta a parole di volere cambiare. Ci permettiamo di segnalare a tutti questi professoroni della rendita che è invece ora di cambiare registro e di tornare a ragionare insieme unendo Nord e Sud. Perché se non si fa subito un gigantesco intervento di industria 4.0 per il Nord produttivo e, allo stesso tempo, non si mette il Mezzogiorno al centro di tutte le missioni del Recovery Plan con la stessa concretezza che segnò la coerenza meridionalista del trentino De Gasperi negli anni del miracolo economico del dopoguerra, allora per l’Italia si prepara una crisi sociale senza precedenti con quattro/cinque milioni di persone in mezzo alla strada. Il Mezzogiorno diventa una polveriera sociale a cielo aperto.

A quel punto già alla fine del primo semestre dell’anno prossimo, neppure le abnormi iniezioni di liquidità della Banca Centrale europea potrebbero evitare la crisi finanziaria italiana. Saremmo noi la nuova Grecia.

Non è né terrorismo né fantapolitica o fantafinanza. Ci ritroveremmo con un debito superiore al 160% di un Prodotto interno lordo in rovinosa caduta, mentre verranno a scadere montagne di moratorie e di garanzie. Saremo costretti a fare ancora di più i conti con un equilibrio instabile pericolosissimo perché figlio di una persistente, incomprensibile, redistribuzione a favore dei ricchi.

Lo spirito vecchio di un’Italia vecchia che nessuno ha il coraggio di cambiare e che ha in un luogo nascosto della democrazia italiana, la Conferenza Stato-Regioni, la sua cassaforte e nell’uomo che ne ha le chiavi, Stefano Bonaccini, il “padrone” del Pd e del sistema di potere che unisce Sinistra Padronale e Destra a trazione leghista e che ha determinato il declino italiano.

Presidente Conte, il suo orizzonte nell’azione di governo di oggi non possono essere i prossimi quindici mesi ma almeno i prossimi quindici anni. Se vuole salvare l’Italia deve riprendere nelle sue mani le chiavi di quella cassaforte. Chieda il consenso politico in Parlamento sull’unica missione possibile per salvare l’Italia dalla crisi sociale e finanziaria e faccia ora quello che avrebbe dovuto fare già qualche mese fa.

Chiami a raccolta i migliori uomini dell’amministrazione italiana e ne chiami altri da fuori di assoluto valore. Il Paese ha bisogno di una struttura tecnica come fu quella della prima Cassa di Pescatore che ha alle sue spalle una classe di governo che non riconosca più l’indebito vantaggio dei ricchi e ricostruisca il primato della politica. Non si può fare diversamente visto che l’alternativa è solo il crac del Paese. Perché se l’Europa si convince che l’Italia resta bloccata nella palude della sudditanza psicologica che ha condannato Nord e Sud al declino, chiude tutti i rubinetti dalla sera alla mattina e francamente non ci sentiamo neppure di dire che sbaglia.


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