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Elizabeth Strout

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Olive Kitteridge è piena e corposa. Quando entra in una stanza non è possibile ignorare la sua presenza, la carica di umanità così prorompente che si porta dietro. Ogni sua azione, ogni suo gesto, sembrano dire: io sono fatta così, non posso farci niente. Forse tu lo odi, come sono fatta, lo odio anch’io a volte. A volte invece, poche, non mi sembro tanto male e penso di aver fatto anche qualcosa di buono nell’esistenza.

Olive Kitteridge è un personaggio inventato, anche se lo si dimentica e capita di parlarne, come fanno gli altri personaggi dei libri di cui è protagonista, come se fosse appena uscita dalla stanza o come se la si fosse incontrata per strada.

È raro che una figura frutto dell’immaginazione di uno scrittore reclami così perentoriamente il proprio corpo e la propria realtà. Non è strano che a farlo sia proprio lei, la burbera, schietta, sensibile e scontrosa Olive, professoressa di matematica in pensione di Crosby, piccolo paese di costa del Maine creato da Elizabeth Strout.

Anche Elizabeth Strout è nata nel Maine, a Portland, “un luogo molto distante dal nulla”, come l’ha definito. Sa presto che vuole essere scrittrice, fa molti lavori per mantenersi mentre riceve altrettanti rifiuti alla pubblicazione dei suoi racconti. Si sposa, si trasferisce a New York.

Esordisce all’età di 42 anni, con il suo primo romanzo Amy e Isabelle, uno dei racconti più onesti e senza infingimenti del rapporto tra madre e figlia, del lato che, sorprendendo entrambe, evolve nonostante le resistenze e di quel nocciolo che invece resta immutabile nel tempo. Il romanzo ha un enorme successo, come il seguente Resta con me.

a è il romanzo di racconti Olive Kitteridge che la consacra come scrittrice, vendendo milioni di copie in America e nel mondo e vincendo il Premio Pulitzer del 2009 (il premio Bancarella 2010 e il premio Mondello 2012 in Italia). Da allora, e grazie ai successivi romanzi, Elizabeth Strout è universalmente riconosciuta come una dei più importanti autori americani contemporanei, accostata per stile e grazia narrativa alla Munro ma pure a Steinbeck per la capacità di cogliere con un’onestà disarmante la piccola umanità quotidiana.

Tutti i libri della Strout sono come avvolti da una stessa luce tenue, calda e accogliente. Ogni volta che se ne legge uno pare di ritornare in uno spazio conosciuto, illuminato fiocamente, in cui ci si sente a proprio agio, in cui ci si sente se stessi.

Perché è questa la grande capacità letteraria della Strout: quella di mostrarci per come siamo e permetterci di ritrovare una parte di noi in una vecchia professoressa burbera del Maine, in un mite tollerante farmacista sognatore, in una pianista di provincia delicata e sfiorita, in decine di altri uomini e donne che abitano quello spazio, che diventa noto e comune a noi, a loro, all’autrice, senza distinzione di sorta tra realtà e letteratura, tempo e distanza.

La sua scrittura solida, ma anche ariosa, limpida e levigata, mai patetica ma neppure distante, riesce a rivelare a noi stessi qualcosa che già sappiamo, con quella sensazione di riconoscimento, così familiare e straniante insieme, che avviene quando si sorprende un sentimento o un pensiero proprio nelle parole di un altro.

Ci si potrebbe domandare com’è che la Strout riesca in questa impresa di verità davanti alla quale soccombono molti autori contemporanei e del tempo passato, lei risponderebbe “cercando una frase sincera, dicendo esattamente la verità”, usando in quella ricerca tutta se stessa, tutto l’impegno necessario. “Non m’interessano il bene o il male, – ha dichiarato in un’intervista – quello è melodramma. Non mi interessa il sentimentalismo. Mi interessa cosa succede nelle vite delle persone […] e non le voglio giudicare”.

Così nei suoi libri la Strout riesce a raccontare il filo di qualcosa che accomuna tutti, la si potrebbe forse chiamare “condizione umana”, qualcosa che è dentro di noi e che a volte, in improvvisi sprazzi di consapevolezza, riconosciamo negli altri. Nel fragile miracolo della sua prosa, esplodono, improvvisi e inaspettati come nella vita, dei minuscoli momenti di epifania, di breve e preziosa comprensione di qualcosa, istantanei stati di grazia che magari non hanno altro scopo o conseguenza che mostrare le cose per quello che sono, nella loro essenza più profonda, più imperfetta e più vera.

Perché Elizabeth Strout è la cantrice dell’imperfezione, ce la rende accettabile, umana, dolorosa e vicina. La cifra delle nostre vite umane, ci sembra dire, non sono solo il desiderio, l’amore, la sofferenza ma sono soprattutto la caduta e l’errore. Il sollievo della caduta è il sentimento inesprimibile che la Strout riesce a raccontare in quel suo modo lirico, sincero e pieno di grazia. E dopo la caduta, il rialzarsi. Dopo l’errore, il perdono.

Siamo nati per sbagliare, per riprovare e per sbagliare ancora, sbagliare meglio direbbe Beckett. Questa rivelazione che alberga nel grosso corpo scontroso di Olive Kitteridge, e nelle vite quotidiane, vive, dense di sentimenti, che le girano intorno, ci investe nella lettura come una sensazione fisica, tangibile. La vita è imperfezione, è errore stolto, a volte cercato, a volte inconscio, è discesa al fondo, un fondo diverso per ognuno ma che tutti a un certo punto conosciamo.

Ma poi è pure risalita, o un istante di consapevolezza, una rivelazione di grazia. Destinate a finire, come tutte le cose, ma l’essenziale è che ci siano state, che ci saranno di nuovo, finché è possibile.

Olive borbotterebbe scontrosa che l’importante è andare avanti, andare avanti quando si trova il corpo del proprio padre che si è appena sparato in testa in cucina, andare avanti quando tuo figlio ti dimostra palesemente che madre terribile si è stata, andare avanti quando si scopre di amare un altro uomo, nonostante l’amore di un marito così pieno di lei, andare avanti quando quel marito non ricorda più se stesso o dopo, quando si è vecchie e vedove e ci si scopre a voler ancora dormire tenendo i propri piedi tra i piedi di qualcuno.

Andare avanti accanto a se stessi, a quello che si è, portandosi dietro i propri momenti alti e le proprie piccolezze. Perché la vita è solamente una vita certo, ma è la propria, l’unica che si ha, e questo fa la differenza. Olive suggerirebbe che vale la pena perdonarsi ogni tanto, anche per poco. E poi riprendere di nuovo tutto, le ostilità, le rabbie, i sensi di colpa, i dolori, le tenerezze, i desideri, gli scontri, le battaglie e gli inevitabili errori dell’esistenza.


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