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Il rapporto della Svimez ci restituisce ogni anno, in dovizia di quantità e di qualità, una fotografia e una cinematografia di un’Italia divisa. E, in una triste accoppiata, conia un doppio divario: c’è un dualismo intra-europeo, fra Italia ed Europa, e un dualismo intra-italiano, fra Centro-Nord e Mezzogiorno. In ambedue i casi ci sono due fanalini di coda, l’Italia in Europa e il Mezzogiorno in Italia. A questo punto si pone un’intrigante domanda: c’è un rapporto fra questi due dualismi? Il fatto che coabitino – correlazione – non implica necessariamente che uno sia la causa dell’altro – causazione. Ma non mancano sospetti – e forse più che sospetti – per pensare che il dualismo interno sia una delle più importanti concause del dualismo esterno.

E il rapporto stesso sembra confermarlo, nel momento in cui ricorda che i divari territoriali non sono limitati al Nord-Sud ma esistono in varie zone del Paese: «Creare le condizioni per restituire alle regioni del Centro in difficoltà i tassi di crescita conosciuti in passato, liberare le regioni più fragili del Sud dal loro isolamento che le mette al riparo dalle turbolenze ma le esclude dalle ripartenze, ricompattare il Nord e il resto del Paese intorno alle sue tre regioni guida, sono tutte premesse indispensabili per far crescere, insieme, l’economia nazionale. Anziché affannarsi a sostenere la causa delle tante questioni territoriali (del Nord, del Centro, del Mezzogiorno), che si contendono il primato nel dibattito in corso sulle vie di uscita dalla pandemia, è tempo di compattare l’interesse nazionale sul tema che le risolverebbe tutte se solo l’obiettivo della crescita venisse perseguito congiuntamente a quello della riduzione dei nostri divari territoriali».

Tornando al Mezzogiorno, è indubbio che, fra le tante potenzialità inespresse, Il Sud sia un giacimento di crescita potenziale. E se dalla potenza si potesse passare all’atto, la crescita dell’economia tutta ne sarebbe confortata. La tabella sugli indicatori socio-economici ci ricorda come il Pil pro-capite del Sud sia poco più della metà di quello del Centro-Nord (C/N). Bastano le quattro operazioni per capire come e quanto possa beneficiare la crescita dell’economia italiana se il Pil pro-capite del Mezzogiorno potesse innalzarsi verso quello delle aree più agiate del Paese. Ma, naturalmente, l’esercizio aritmetico non dà conto della complessità della sfida. Ci sono ostacoli di natura politica, sociale e culturale da sormontare. Non più, fortunatamente, ostacoli di natura finanziaria, dato che i soldi del Next Generation EU (NGEU) possono essere usati a questo scopo: uno scopo che, fra l’altro, è in cima alle raccomandazioni delle autorità europee, che vedono, correttamente, nella riduzione degli squilibri territoriali una precondizione per una crescita che è frenata dalle diseguaglianze. Ma è proprio la natura degli ostacoli non finanziari a spingere molti al pessimismo, a credere che i tempi lunghi necessari a questo superamento scoraggino anche dal mettersi in cammino… L’ex Presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, fu convocato un giorno al Congresso per un’audizione sugli squilibri della Social Security americana, e, dopo che lui perorò con calore la necessità di avviare l’azione di risanamento, un senatore gli chiese quale fosse il momento migliore per iniziare. La risposta di Bernanke fu: “Dieci anni fa”.

Del pari, una risposta analoga potrebbe essere data a chi chieda quale sia il momento migliore per avviare la convergenza fra Nord e Sud. Quella risposta paradossale non fa altro che sottolineare l’urgenza, senza se e senza ma, di usare delle opportunità offerte per attizzare focolai di crescita nel Mezzogiorno: un’area che è ricca, più di quanto non si creda, di potenzialità inespresse. Queste potenzialità inespresse riguardano, innanzitutto, il capitale umano. Gli indicatori della tabella mostrano lo spreco di risorse umane che macchia la ‘disunità d’Italia’: nel 2019 il tasso di disoccupazione era del 17,6% nel Mezzogiorno, e del 6,8% nel C/N. Per la disoccupazione giovanile era del 21,2 nel C/N e del 45,5 nel Mezzogiorno (per le giovani donne del Sud si sfiora il 50%). Se vogliamo aggiungere ai disoccupati anche coloro che non hanno cercato lavoro ultimamente, ma lo vorrebbero, e i cassintegrati a zero ore (si giunge così al cosiddetto ‘tasso di disoccupazione corretto’) le percentuali sono del 9,1% nel C/N e del 27,6% nel Mezzogiorno.

Quello che più preoccupa – e che rende di tanto più urgente il contrasto di questo degrado – è la dinamica dei divari. Non solo la piaga è evidente e aperta, ma rischia la suppurazione. Il dualismo sta peggiorando, sia a livello di prodotto che a livello di occupati. Il grafico mostra come, dal 2008 ad oggi (II° trimestre 2020), l’occupazione nel C/N sia cresciuta molto poco, ma quel poco ha il ‘segno più’. Nel Mezzogiorno, invece l’occupazione è molto al di sotto del livello di dodici anni prima. Questi divari vanno ben al di là del fatto economico/occupazionale. Recano uno sfilacciamento del tessuto sociale. Come recita il Rapporto: «Alla persistente differenza di reddito e di occupazione legate alla minore presenza di attività economiche si aggiungono, oggi aggravate dalla crisi determinata dal Covid-19, il quotidiano confrontarsi con livelli di servizi pubblici, dalla scuola alla sanità ai trasporti, peggiori che nel resto del Paese, e la conseguente percezione di un incolmabile divario di opportunità soprattutto per le nuove generazioni». Il divario Nord-Sud degli anni Venti del Duemila, «ancora prima e ancor più che differenza negli indicatori economici, è disuguaglianza nelle condizioni di vita. Ciò si traduce nella percezione, per chi ha la sventura di nascere al di sotto del Garigliano, di godere di una sorta di ‘cittadinanza limitata’».

Per correggere questo triste stato di cose ci vogliono, certo, risorse finanziarie (e queste, bene o male, presto o tardi, arriveranno). Ma ci vuole soprattutto una passione civile, una convinzione profonda che per superare il dualismo Italia/Europa bisogna affrontare prima di tutto il dualismo Nord-Sud.


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