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ISOLA CAPO RIZZUTO – Il giogo mafioso era così forte tra le vittime della cosca Nicoscia di Isola Capo Rizzuto che con «apparente spontaneità» andavano «incontro alle istanze dei malavitosi» i quali «non erano tenuti nemmeno a formulare una minaccia esplicita, tale era il timore ingenerato dal loro semplice approcciarsi». La conferma viene da una conversazione intercettata nel corso della quale, nel febbraio 2006, Michele Pugliese, protagonista di numerose captazioni, «tanto tronfiamente», a colloquio con una sua amica, «sottolineava l’autonomo attivarsi delle vittime che tentavano di placare la cupidigia dei loro sfruttatori non solo in assenza di minacce di sorta, ma addirittura senza nemmeno il bisogno di essere sollecitate a mezzo di una preventiva richiesta». E’, forse, uno dei passaggi più significativi delle motivazioni della sentenza Pandora, depositate a distanza di tre mesi dall’emissione del dispositivo con cui, nel marzo scorso, furono inflitte dal Tribunale penale di Crotone nove condanne a presunti esponenti delle cosche Arena e Nicoscia di Isola Capo Rizzuto (ma il grosso degli imputati ha optato per il rito ordinario con il quale, nel luglio dello scorso anno, furono condannate altre 14 persone). Le condanne in alcuni casi superavano le richieste del pm Antimafia Pierpaolo Bruni, per cui l’impianto accusatorio ha retto, sostanzialmente, al vaglio del collegio presieduto da Massimo Forciniti.
Ecco alcuni brani della conversazione telefonica intercettata che il giudice estensore, Michele Ciociola, ha ritenuto opportuno riportare. A parlare sarebbe Pugliese: «e manco quelli gli fanno niente, non ti preoccupare… non hai capito che i cristiani i soldi glieli mandano soli… gli altri si spaventano e glieli danno, a lui no, non ti preoccupare che i soldi glieli mandano a coppe… senza cercarglieli glieli mandano, non hanno bisogno dei miei».
Il servizio completo, a firma di Antonio Anastasi, sull’edizione cartacea di oggi del “Quotidiano della Calabria”.
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