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Nel giorno dell’anniversario del rapimento di Lollò Cartisano, decine di persone in marcia per ricordare e condividere storie di sofferenza
REGGIO CALABRIA – Qui Aspromonte. Un tempo teatro di sequestri di persona e terrore, oggi luogo di memoria e impegno civile, nel ricordo di tutte le vittime innocenti delle mafie. È il 22 luglio, anniversario del rapimento di Lollò Cartisano, fotografo amato e stimato di Bovalino, ultimo di una stagione di sequestri di persona da parte degli spietati clan della ‘ndrangheta reggina, che tra gli anni ’80 e ’90 nascondeva e torturava le persone imponendo esosi riscatti alle famiglie per rilasciare i loro cari.
All’appuntamento con la marcia in ricordo di Lollò (Adolfo il suo nome di battesimo) e di tutte le vittime della ‘ndrangheta, non si può mancare. Questa è la tredicesima edizione e anche quest’anno decine di persone hanno raggiunto le vette dell’Aspromonte per unirsi al cammino insieme ai familiari dei defunti.
“Benvenuti e grazie di essere qui con noi” saluta la folla Deborah Cartisano, figlia di Lollò e coordinatrice di Libera Locride, la quale ha voluto seguire le orme del padre portando avanti il suo studio fotografico. “Quelle che sentirete oggi sono tutte storie di sofferenza. Queste vicende sono come un morso che non ci lascia in pace e lo condividiamo con tutti voi affinché la memoria diventi esercizio collettivo”.
Sono le 9.30, il sole picchia e il caldo si fa sentire. Più di sei ore di cammino tra i sentieri impervi aspromontani aspettano al gruppo composto dai ragazzi che partecipano ai campi di Libera in Calabria, tra Polistena, Marina di Gioiosa Jonica e Isola Capo Rizzuto, oltre ad alcuni amici dei familiari che non vogliono far mancare il loro sostegno. È un cammino a tappe, ciascuna delle quali è dedicata al racconto. Tra i familiari c’è Mario Congiusta, padre di Gianluca, giovane imprenditore di Siderno “che aveva aperto tre negozi di telefonia mobile dimostrando di saper portare avanti l’attività commerciale in maniera molto proficua”, racconta ai giovani che ascoltano assorti le parole di sofferenza dell’uomo. “Mio figlio non ha mai ceduto alle richieste di estorsioni di quelle bestie, tanto che abbiamo subito svariate rapine e siamo stati costretti a chiudere il negozio di Locri. Ma Gianluca è stato ucciso perché si è opposto alle intimidazioni nei confronti del futuro suocero. Se avessimo vissuto in un altro luogo queste cose non ci sarebbero successe, invece noi calabresi siamo da sempre una popolazione emarginata”. Insieme a lui c’è Liliana Carbone, madre di Massimiliano, ragazzo di 25 anni di Locri, “ucciso perché amava e aveva osato diventare papà e, anche se per gli inquirenti l’omicidio di mio figlio non ha connotazione tipicamente ‘ndranghetistica – precisa la donna – io porto avanti la mia battaglia per ottenere giustizia”. Nella storia di Massimiliano “l’onore” ha prevalso con la solita dinamica criminale: si era innamorato di una donna più grande, dalla quale aveva avuto un figlio e quando aveva scelto di rivendicarne la paternità, qualcuno decise di farlo fuori.
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Il tempo scorre, il sole è sempre più alto e il cammino prosegue. Un gruppo di ragazzi di Libera, studenti dell’Università Luiss di Roma riflette sulla mancata partecipazione della gente del posto alla manifestazione. “Credo che gli abitanti non aderiscano per paura di ritorsioni – dice Martina rivolgendosi agli amici – ed è normale avere paura. Anche dove vivo io, a Formia, c’è la criminalità e la gente avrebbe difficoltà a partecipare a manifestazioni contro quelle famiglie”. “Si ma se non ci si prova non cambierà mai niente – risponde Andrea – e comunque queste storie ci insegnano tanto”. Il gruppo, circa 200 persone tra giovani e meno giovani, prosegue la marcia. Vengono raccontate altre storie. Quella del mugnaio comunista Rocco Gatto, collezionista di orologi, ucciso a Gioiosa Jonica per aver denunciato i clan che impedivano l’apertura del consueto mercato domenicale, il 12 marzo del ‘77. L’omicidio di Peppe Tizian, integerrimo banchiere ligio al dovere, freddato sulla 106 il 23 ottobre 1989 e l’impegno di suo figlio Giovanni, attuale firma dell’Espresso, che da anni ha deciso di ripercorrere quella storia e i traffici dei clan, realizzando diversi libri inchieste sul radicamento delle mafie in Emilia Romagna e al nord. Dopo un altro tratto di cammino, tocca a Maria Correale, vedova di Fortunato, meccanico di Locri ucciso il 22 novembre 1995 mentre lavorava nella sua officina e a Vittoria Marino raccontare le loro storie. “Non mi piace definirmi vedova – precisa la donna – io sono la moglie del brigadiere Antonino Marino, comandante della stazione dei Carabinieri di Platì, ucciso durante la festa dell’Immacolata a Bovalino, il mio paese di origine”. Per tutte quelle perquisizioni nelle case di certe famiglie, “mio marito era considerato scomodo e l’hanno sparato davanti a me che ero incinta del mio secondo figlio. Finalmente ho trovato il coraggio di venire qui a raccontarvi questa storia, ma la mia ferita brucia ancora”.
Un’altra preziosa testimonianza è quella di Totò e Anna Fava, anziani genitori di Celestino, ucciso a 22 anni, insieme a Nino Moio (27) il 29 novembre 1996 nelle campagne di Palizzi (Rc). “Ancora oggi non sappiamo la verità circa il suo omicidio, secondo quanto ha scritto la magistratura ‘si trovava al momento sbagliato nel posto sbagliato’”, ricorda il padre. “Gli assassini hanno sparato prima al ragazzo che era in sua compagnia, poi hanno visto Celestino e non me l’hanno risparmiato, probabilmente per evitare che denunciasse l’accaduto”. Dopo le testimonianze di Matteo Luzza, referente di Libera Memoria in Calabria e di Luigi Montana, nipote di Beppe, Commissario della Squadra Mobile di Palermo, ucciso il 28 luglio 1985 dalla mafia, manca l’ultima tappa. Arrivati alle pendici del monolite di Pietra Cappa, nel luogo dove nel 2003, in seguito agli indizi forniti con una lettera anonima del sequestratore che chiedeva perdono, furono ritrovati i resti di Lollò Cartisano, i suoi tre figli Deborah, Rocco e Giuseppe ricordano quei tragici giorni e la speranza che il papà tornasse presto a casa “da vivo però, non da morto”. Tra i presenti anche Luigi Ancora, un agente penitenziario in servizio in Puglia (LEGGI LA SUA TESTIMONIANZA)
La carovana si avvicina alla lapide dell’amato fotografo di Bovalino, ex giocatore di calcio e, volta per volta, ognuno posa una pietra colorata accanto a quelle che già ci sono. “L’idea di mettere qui questi sassi è stata di mia madre Mimma – commenta Deborah – per simboleggiare il cuore di pietra degli ‘ndranghetisti, contrapposto al cuore grande di mio padre che amava questa terra e l’Aspromonte, uno dei soggetti preferiti dei suoi reportage fotografici”.
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