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LA CORTE di Cassazione ha accolto le istanze dei difensori e ha annullato la sentenza d’Appello contro i presunti esponenti del clan Bonavota di Sant’Onofrio. Si tratta del processo che fa riferimento all’operazione Uova del drago, condotta su iniziativa della Dda di Catanzaro nell’ottobre del 2007. Secondo gli inquirenti, le persone coinvolte erano ai vertici della cosca che fa capo ai Bonavota operante a Sant’Onofrio e Vibo Valentia, ma anche con ramificazioni a Roma e Torino. Gli indagati sono ritenuti responsabili a vario titolo di associazione per delinquere di tipo mafioso finalizzata alla commissione di estorsioni, usura ed altri reati contro il patrimonio e in materia di armi. Il 21 ottobre dello scorso anno, la Corte d’Appello di Catanzaro aveva però ridotto le pene inflitte in primo grado,
condannando Pasquale e Domenico Bonavota (5 anni ciascuno), Francesco Michienzi (6 anni e 4 mesi), Onofrio Barbieri, Francesco Fortuna e Antonio Patania (3 anni e 4 mesi a testa), e assolto Filippo Trimboli (l’unico escluso dal ricorso) Maria Fortuna e Roberto Ceraso, dichiarando il non doversi a procedere per Antonio Serratore.
Contro la sentenza avevano fatto ricorso sia i legali degli imputati, sia il sostituto procuratore generale Marisa Manzini. I giudici di secondo grado, al termine del processo celebratosi con il rito abbreviato, avevano escluso l’aggravante dell’associazione armata e le modalità mafiose. Ed è proprio su questi aspetti che il magistrato ha fondato il suo ricorso, rilevando come «le argomentazioni della Corte non convincono ed appaiono manifestamente illogiche e contraddittorie» per quanto concerne specificatamente la natura armata del sodalizio. Ciò che non ha, per così dire, convinto la Manzini è che appare «veramente illogica l’affermazione della Corte» secondo la quale «il possesso delle armi da parte di Pasquale Bonavota sembra destinato a fini personali, e non anche ad agevolare l’attività delittuosa della sua consorteria»; ed al riguardo il sostituto procuratore generale ha fatto riferimento ad una intercettazione ambientale nel corso della quale Bonavota interloquisce un certo “Mastro Giacomo” proprio a proposito di armi. In più, il magistrato stesso ricorda che proprio Pasquale Bonavota è stato riconosciuto dalla Corte «elemento apicale della consorteria mafiosa fino al 2003 ed in grado di compiere “azioni di fuoco”». Ma, soprattutto, per la Manzini i giudici cadono in una «contraddizione lampante» nel momento in cui affermano nella sentenza che «la permanenza del’imputato nella struttura associativa, ed anzi nella sua funzione di promotore, è emersa dalle risultanze istruttorie circa l’organizzazione di agguati, il compimento di atti intimidatori, la detenzione illegale di armi che provvedeva anche a cedere e ad acquistare».
La Cassazione, però, ha rigettato il ricorso del sostituto procuratore generale, definendolo inammissibile e ha invece accolto le tesi dei difensori degli imputati. Altro aspetto riguardante la venuta meno dell’associazione armata è quello relativo al blitz delle Squadre Mobili di Vibo e Catanzaro nell’abitazione dei coniugi
Ceraso-Fortuna quando rinvennero un vero e proprio arsenale. Irruzione che portò principalmente all’arresto di Francesco Fortuna, il quale aveva avuto una relazione con la figlia dell’ex Presidente della Provincia Gaetano Bruni, fino a quel momento uccel di bosco. E, dunque, nonostante questo aspetto, fu alquanto singolare che i giudici di merito non avessero riconosciuto il reato di associazione armata portando il pm Manzini a presentare ricorso agli “Ermellini”.
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