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TROPEA – Era il 5 novembre dell’anno scorso quando la questione relativa ai debiti contratti dai consiglieri e assessori comunali era approdata a Palazzo Sant’Anna, sede del Comune. A sollevarla era stato il capogruppo dell’opposizione Adolfo Repice, fino a pochi mesi prima della sentenza del Consiglio di Stato, sindaco della “Perla dello Stretto”, il quale, nel ricostruire l’iter della vicenda aveva stigmatizzato «il comportamento, oltre che dei sei consiglieri morosi, anche dello stesso primo cittadino, del capogruppo-assessore e del vice sindaco, «i quali con le rispettive dichiarazioni hanno aggravato ulteriormente una questione già molto grave». Repice era andato anche oltre, prospettando risvolti penali nella vicenda: «Sussiste il reato di cui all’art. 483 c.p. (ai politici viene contestato il 495, ndr) qualora, nel contesto dell’autocertificazione indirizzata al segretario comunale si sia dichiarato contrariamente al vero di non trovarsi in alcuna delle condizioni di incompatibilità». Sempre il capo dell’opposizione aveva, poi, voluto sottolineare la lettera con cui l’allora Prefetto Luisa Latella aveva chiarito i motivi di incompatibilità, sia che esistano al momento della elezione sia che sopravvengano ad essa. Il gruppo “Passione Tropea” aveva, quindi, richiesto le dimissioni del sindaco e contestato la causa di incompatibilità per i consiglieri in questione, chiedendo che questi si astenessero dal votare in quanto aventi interesse in causa.

La risposta della maggioranza era stata affidata a Vallone, il quale dopo aver chiesto a Repice perché non avesse rilevato le stesse cause di incompatibilità o la semplice morosità per carichi tributari nei confronti del Comune di Tropea all’atto del suo insediamento, aveva confermato di aver rifiutato le dimissioni dei consiglieri in questione aggiungendo di aver, comunque, «rimproverato la morosità dei consiglieri invitandoli a sanarla». Ed in effetti i sei avevano provveduto, secondo le risultanze investigative, a saldare il debito, ma non a pagare la mora. Vallone aveva concluso l’intervento affermando che «effettivamente diversi consiglieri di maggioranza erano morosi nei confronti dell’ente e sulla gravità del fatto non si discute. Tuttavia tale situazione non ha nulla a che vedere con l’evasione fiscale, termine indicante le vendite in nero o le false dichiarazioni dei redditi». La successiva votazione sull’incompatibilità si era risolta a favore della maggioranza, forte della preferenza nominale che le aveva permesso votare su ogni singolo consigliere, anziché sui sei in questione.

 

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