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LUNGI dalle tentazioni di entrare nelle dispute sulla soppressata di Raoul Bova nel cortometraggio di Muccino sulla Calabria e dalle aspirazioni diffuse a diventare membri onorari dell’Accademia della Crusca per discettare sui modi dei verbi, la classe politica calabrese ha davanti a sé un’occasione storica per dare una bella ripulita ad un’immagine di inefficienza consolidata quanto basata sulle evidenze accumulate negli ultimi decenni. L’occasione, nello specifico, non è una contingenza felice, si può riassumere con due parole – emergenza sanitaria – e, soprattutto, è una priorità assoluta che non contempla possibilità di distrazioni, più o meno di massa.

Si chiama emergenza sanitaria da Covid-19, ed è molto più grave di quanto si possa pensare perché la pandemia si va ad innestare in una situazione – quella della sanità calabrese – già strutturalmente debole, debolissima, ostaggio per decine di anni di una gestione poco funzionale per l’ingerenza spudorata della politica (si legga “clientele”) e per un periodo di tempo abbastanza lungo piegata (anziché risanata) da commissariamenti che hanno badato soprattutto ai conti e molto poco ai livelli di prestazioni, con un doppio risultato: i conti restano in rosso cupo e l’efficienza vira sul nero opaco.

Basta parlare con un qualsiasi medico impegnato in un ospedale calabrese per rendersi conto che i punti critici dell’emergenza Covid in questa regione si chiamano medicina sul territorio ai minimi termini e posti di terapie intensive insufficienti nel caso di scenari che nemmeno gli scienziati della top ten delle apparizioni social e televisive sono in grado di prevedere con precisione (e forse neanche per approssimazione).

Il catastrofismo è parente stretto della superficialità (il negazionismo resta fuori perché palese espressione dell’idiozia), per cui un minimo di ragionamento che sia aderente alla realtà prevede che in una situazione relativamente più tranquilla rispetto a quelle di altre regioni si debba poter contare su una rete efficiente che tracci i contatti di persone risultate positive e provveda ai tamponi in tempi rapidissimi e quindi “utili”; una rete che possa garantire le terapie domiciliari a quei “sintomatici” che non hanno bisogno di essere ricoverati e che disponga, invece, di un congruo numero di posti in terapia intensiva per i casi più gravi. Questa rete non c’è. Non è stata rafforzata a sufficienza in questi ultimi mesi in cui il virus ha concesso una tregua e poco importa di chi sia la responsabilità (Regione, commissari, Governo), perché chiunque si fosse reso conto dell’inadempienza di un altro senza denunciare a tutti i livelli con tutta la forza che aveva in corpo si è reso complice di una vergogna.

Non basta dire: “questo doveva farlo il Governo” piuttosto che “questo doveva farlo la Regione”. Se dovessero servire azioni forti per richiamare alle responsabilità “chi doveva farlo” non sono questi tempi di indugi o timidezze, perché la salute pubblica è tanto importante da non poter essere neppure classificabile. E – lo stiamo vivendo sulla nostra pelle – se la salute pubblica va a picco trascina con sé l’economia, che non è un’entità astratta, ma quel minimo vitale per una società già depressa per cento altri motivi. La prima fase della pandemia, nella scorsa primavera, ci ha già dimostrato come un fragile tessuto produttivo possa essere messo definitivamente in ginocchio. E per la Calabria, così come per le altre regioni del Sud, lo scenario di fragilità è duplice. Roberto Napoletano lo scrive da mesi, conti ufficiali alla mano, sull’AltraVoce dell’Italia, l’edizione identitaria di questo giornale: il meccanismo ultradecennale di riparto della spesa pubblica (nello specifico quella sanitaria), ha consolidato una realtà di dolorose diseguaglianze e ridotto mezzo Paese (il Mezzogiorno) ad un crogiolo di inefficienze.

Se in questa regione non si avvia immediatamente una battaglia per correre ai ripari, per avere in tempi “da emergenza” una sanità più strutturata, e quindi più in condizione di arginare la pandemia, ogni misura sociale di contenimento del virus, per le conseguenti ripercussioni sui brandelli di economia produttiva che ci restano, potrebbe essere devastante. Piuttosto che preservarsi con atteggiamenti pilateschi, il Governo trovi il tempo – perché è indispensabile – per dare alla sanità calabrese tecnici del settore di primissimo piano che siano in grado di avere una visione di un sistema da riorganizzare.

La pandemia ci ha già abbondantemente dimostrato come la salute pubblica sia anche salute socio-economica, ma la salute dei calabresi non può essere programmata e gestita secondo criteri ragionieristici, badando solo ai numerini delle colonne “entrate” e “uscite”. Peraltro, senza una visione frutto di esperti del settore è anche difficile immaginare un impiego funzionale delle risorse che dovessero arrivare, siano esse ordinarie (con l’auspicata fine dello scempio della iniqua distribuzione territoriale) o straordinarie.

Di tutto questo prenda nota chiunque stia pensando di candidarsi alle prossime elezioni regionali rese necessarie per la prematura scomparsa della governatrice Jole Santelli. E non c’è colore o schieramento che tenga. La priorità assoluta, oggi, è questa (un po’ sopra le tante altre), e vale per tutti. Per capirci: non bastano interrogazioni parlamentari, comunicati stampa, dirette su Facebook, selfie e frasi da spot. La gente, prima o poi, se ne accorge, perché il prezzo che potrebbe pagare è troppo alto. E poi, per rifarci alla lucida riflessione di Domenico Talia pubblicata ieri su questo giornale (“La critica vada oltre l’orgoglio”), vien da chiedersi come mai ci indignamo con tanta veemenza per il cortometraggio di Muccino e molto poco per tanto altro. Partendo, per esempio, dalla sanità in Calabria.

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Alessandro Chiappetta

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