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AVVERTIAMO dentro tre insopprimibili spinte. La prima all’insurrezione contro la grande fake del lutto, tra performance di prefiche dell’intero arco parlamentare, opinionista, social e di lacrimatori a pulsante che a poche ore dalla morte di Jole Santelli già avevano issato la bandiera della Lega sul pennone più alto della Cittadella generalmente battuta dal vento che soffia orgoglioso dal mare del Golfo e che adesso spira arrogante da nord.
Solerte, con Matteo Salvini, nel richiamare a prua i leghisti del tacco dello Stivale, quegli ossimori smemorati di cui scrivevamo qualche colonna fa, a discutere sul porto di Gioia Tauro per esempio – come ben ricorda don Ennio Stamile, referente di Libera, la più grande opera di ingegneria ‘ndranghetista – e poi non del futuro Calabria, ma di come questo domani spartirlo.
La seconda spinta è alla ribellione contro l’ipocrita, avvilente operazione di beatificazione della leader. Sulla base di virtù e lungimiranze politiche che, al contrario, non possedeva (e non è una colpa, attenzione). Né perciò avrebbe potuto dimostrare, a parte l’innata simpatia, da verace donna del popolo alla Anna Magnani, nemmeno se avesse avuto il tempo che disgraziatamente non ha avuto.
Ella stessa sorride adesso, respingendo la candidatura con fermezza al mittente dei numerosi postulatori della causa, avendo, da donna intelligente, disdegnato in vita le false lusinghe dei cortigiani. Checché ne dicano i suoi incensatori, restano ben poche cose sul piano della lectio politica. Un certo senso pratico, forse. Pensiamo alla richiesta di commissari per la costruzione dei nuovi ospedali, ben conoscendo l’incapacità dei burocrati del posto in fatto di gestione delle grandi opere. Nulla però da poter ascrivere a un santo.
Nemmeno, ovvio, l’attenuante di essersi trovata a due mesi dall’elezione in piena bufera Covid, costretta a scelte forse obbligate. Tra queste, subìta, quella del suo vicepresidente Nino Spirlì, messo lì ad hoc dal Carroccio per spegnere il corto circuito tra le correnti dell’alpestre bergamasco Cristian Invernizzi e del marittimo lametino Domenico Furgiuele.
L’eredità politica? Un cortometraggio di propaganda alle clementine e alla neonata soppressata con finocchietto (mai sentita prima) più che di promozione, costato un milione e settecentomila euro, sbattuti sul muso dei calabresi che lavorano davvero. Acclamato come piccolo capolavoro dagli ex compagni avanti il gran partito dell’ufficio stampa della Regione, in verità è una parodia delle scene siciliane de Il Padrino quando il giovane Mike Corleone viene strategicamente spedito da New York al paesello: coppole, mandolini, agrumi, pergolati e sciocchezze a seguire, firmate da Gabriele Muccino in versione ultimo bacio ma da Iscariota, traditore, incapace di capire quale sia la vera Calabria, come Giuda fa con la bellezza di Gesù.
C’è però una terza, ineludibile spinta: è verso l’auto-ammutinamento. Sì. Davanti a quei pensieri e a quelle parole che non si piegano al prodigio del silenzio, soprattutto intimo, sempre invece necessario di fronte a ciò che non sappiamo fino in fondo (e non capiamo, perciò) degli altri, siano essi anche avversari politici. State attenti alle parole, possono essere sia margherite che ferite, scrisse la poetessa statunitense Anne Sexton, mettendo queste in perfetta sovrapposizione con le uova: una volta rotte, non si possono riparare.
Quel nostro “la presidente Santelli impari l’educazione”, urlato qualche giorno fa dopo l’uscita ignobile di Spirlì era imboccato dall’indignazione, appunto, per quelle parole. Che sì, margherite non erano. Un vicepresidente e assessore alla Cultura deve edificare, non distruggere, informando (quando, Spirlì?) delle attività del suo governo in relazione a un patrimonio intellettuale e materiale da sostenere con sensibilità e con la forza di progetti politici, non facendo dell’odioso slogan “negro, frocio, zingaro tutta la vita” una Magna Carta del nulla.
Eravamo insorti, vero, rimproverando la presidente affinché desse l’esempio, invece di spalleggiare l’amico non geniale ma gran maleducato. Avevamo captato poi come terribili le esternazioni sullo stile “avete rotto i coglioni”, e infine letto la tarantella come un affronto. Ecco, quel lessico, quell’altro giro di giostra, di tarantella, erano forse pugni singhiozzanti in estrema opposizione a un destino amarissimo.
Un addio da San Giovanni in Fiore da danzatrice mistica derviscia, che in ipnosi si dirige verso Dio. Non lo avevamo compreso. Vorremmo perciò essere vasi rotti giapponesi, oggi. Patire il fuoco dell’antica arte del Kintsugi, dove silenti maestri fanno colare oro e argento tra le spaccature, restituendo loro vita e dignità, abbracciando comunque il danno e guardando alle ferite sotto altra luce. Con pazienza, siamo convinti che anche le uova della Sexton ne trarrebbero giovamento. Promettiamo di applicarci di più sull’osservazione e l’ascolto.
Nel discorso che ha inaugurato la Fiera del Libro a Francoforte, lo scrittore israeliano David Grossman indica una strada di speranza in questo senso: in questo tempo osservare il prossimo, e meglio, “…creare una sorta di anticorpo o di vaccino spirituale al virus”. Ecco, quell’opera d’arte dovrà essere il silenzio. Il passo indietro, quando necessario. Il ritorno all’attimo prima del giudizio. Il restare lì. Lasciar fare agli altri un ultimo giro di giostra. Di tarantella.
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