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POTENZA – Ottanta centimetri di «terreno di copertura», prelevato con molta probabilità dal letto di qualche torrente. Lo stesso materiale fino a due metri e mezzo di profondità con una piccola aggiunta di piombo, vanadio, idrocarburi pesanti e leggeri ben oltre i limiti previsti dalla legge. Poi quasi un metro di un impasto grigio scuro dal «caratteristico odore di bitume». Stesse componenti chimiche di sopra, stessi veleni – perchè di questo si tratta -, ma in percentuali più elevate. Non c’è dubbio per il perito incaricato dai pm Eliana Franco e Sergio Marotta della Procura della Repubblica di Potenza: in almeno due punti lungo la strada che porta al pozzo Tempa Rossa 2, nelle campagne attorno a Corleto Perticara, qualcuno ha sversato i fanghi prodotti dal processo di perforazione. Sono rimasti lì per quasi vent’anni, nascosti da una manina misteriosa che ha voluto camuffare le sue tracce.
E’ braccio di ferro sulle responsabilità per quello che nei prossimi mesi potrebbe trasformarsi nel primo disastro ambientale accertato dell’era delle esplorazioni petrolifere in Basilicata. Mentre proseguono le indagini dei carabinieri del Noe, che quasi un anno e mezzo fa hanno messo sotto sequestro 6 distinte particelle di pascoli e campi coltivati in località Serra d’Eboli, la conferenza di servizi tra gli uffici del dipartimento ambiente di via Anzio, il Comune di Corleto, i proprietari terrieri e Total esplorazione & produzione sembra già arrivata a una fase di stallo. Il punto di contrasto è la domanda definitiva: chi si accollerà le spese per il ripristino ambientale dell’area? Chi è disposto a farlo sapendo che da un giorno all’altro qualcuno potrebbe interpretare quella disponibilità come un’ammissione di colpa rispetto ad almeno tre morti per tumore che si sono verificate negli ultimi tempi?
Già, i morti per tumore, perchè in tutta questa vicenda, che risale indietro ai primi anni ’90, c’è un aspetto che ricorda da vicino un capitolo di Gomorra. Innanzitutto ci sono delle immagini aeree. Le hanno recuperate i militari al comando del capitano Luigi Vaglio. Ritraggono dei mezzi pesanti mentre scavavano le vasche dove dovevano essere stoccati temporaneamente i fanghi di perforazione, quelli prodotti dal liquido pompato in profondità per evitare che le trivelle prendessero fuoco a cinquemila metri dalla superficie del pozzo. Tempo dopo ci sono solo campi coltivati e pecore al pascolo in libertà. Le vasche sono rimaste lì sotto e il pastore che portava le sue bestie a mangiare l’erbe sulla “Montagnola”, Giuseppe Lombardi di 68 anni, è morto nel 2008 per un carcinoma al rene.
Il Crob di Rionero tra i fattori di rischio per un tumore di questo tipo indica: «il fumo, l’obesità, l’ipertensione, una terapia estrogenica non bilanciata, l’esposizione ad asbesto, ai derivati del petrolio, ai metalli pesanti e una malattia cistica acquisita da emodialisi». Difficile affermare con certezza che la causa scatenante sia stata l’esposizione alle sostanze presenti nel terreno dove per quindici anni Lombardi ha portato le pecore, ma il perito dei pm di Potenza non appena consultato ha usato toni perentori sull’argomento: «Dev’essere impedita qualsiasi attività agricola in quanto i metalli pesanti entrano nella catena alimentare attraverso le piante. Purtoppo – prosegue con un’amara considerazione – sui siti esaminati l’attività agricola è stata protratta per oltre 15 anni, arrecando gravi rischi per la salute». Gravi rischi: se poi in concreto si siano tradotti in qualcosa di peggio è quello che in tanti preferirebbero che non si scoprisse mai.
Leo Amato
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