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Come già osservato su queste colonne (vedi Il Quotidiano del Sud del 29 settembre 2020), l’insistenza di questo giornale sulla maladistribuzione delle risorse pubbliche fra Mezzogiorno e resto del Paese ha cominciato a percolare nella coscienza nazionale. La “questione meridionale” non è più solo argomento di ponderosi saggi e pacati (non sempre) dibattiti; si è vestita di cifre, di miliardi, di addizioni e sottrazioni, e così facendo ha toccato il portafoglio, cioè a dire un nervo scoperto.
Ecco che la “cifra magica” al centro del dibattito – i circa 60 miliardi di euro all’anno ‘sottratti’ al Sud – cominciano, come era da prevedere, a innescare accese discussioni». Ieri sul sito de La Repubblica è stata pubblicata una nota della Svimez che rispondeva a un recente studio dell’Osservatorio CPI (Conti Pubblici Italiani). Studio che affermava come non fosse vero che la spesa pubblica pro-capite abbia pesantemente penalizzato il Mezzogiorno e anche fosse addirittura vero il contrario.
Le controdeduzioni sono già state pubblicate su questo giornale (vedi il pezzo del 29 settembre appena citato, e l’articolo di Adriano Giannola del 6 ottobre), e la nota della Svimez le amplia, rimandando a una più dettagliata risposta disponibile sul loro sito (LEGGI). Risposta che contrasta, punto per punto e in modo convincente, le osservazioni dell’Osservatorio. Mette solo conto di ricordare che, a parte le diatribe sul quanto di spesa pubblica vada alle diverse regioni, tutte le cifre – dell’Istat, della Banca d’Italia, dei Conti Pubblici Territoriali (CPT) – concordano sulla dinamica: concordano cioè, sul fatto che da almeno 10 anni a questa parte, la spesa pubblica destinata al Centro-Nord è cresciuta più rapidamente di quella destinata al Mezzogiorno.
Tutto questo può sembrare una polemica fra addetti ai lavori, ma dietro c’è qualcosa di fondamentale per il destino e il cammino dell’economia italiana. Non bisogna cadere nella trappola degli opposti schieramenti – di qua il Nord, di là il Sud – che si guardano in cagnesco per strappare una fetta più grossa delle risorse. Il problema non sono le “fette”, ma la “torta”. Il problema è quello di far crescere la “torta” dell’economia tutta, a vantaggio di tutti i punti cardinali della Penisola.
E questo è specialmente importante adesso che l’Italia, per un’astuzia della storia, sta per ricevere dall’Europa ingenti mezzi finanziari destinati a curare quei malanni che da un ventennio ci condannano alla stagnazione. Si tratta, in una parola, di innalzare il potenziale dell’economia italiana. Già gli inviti – espressi nelle linee-guida europee per l’utilizzo dei fondi “Next Generation EU” – elencano i settori in cui investire, non solo e non tanto per curare le ferite del Covid-19 ma soprattutto per rimettere la nostra economia su un sentiero di crescita. Se guardiamo – noi e l’Europa – ai comparti dove maggiore è la necessità di una spinta, ne vediamo due, che non a caso sono già parte delle linee-guida: le disparità di genere nell’occupazione e i divari territoriali.
Il tasso di occupazione femminile in Italia è fra i più bassi del mondo, e non è difficile stimare l’aumento (massiccio) del Pil se questo tasso di occupazione potesse essere portato al livello della media europea, attraverso incentivi, investimenti in istruzione e in asili nido per una migliore conciliazione fra famiglia e lavoro. E le disparità territoriali sono anch’esse massicce, forse le più marcate fra i Paesi dell’Unione europea. Il reddito pro-capite del Mezzogiorno è poco più della metà di quello del Centro-Nord. Ma questa minorità è allo stesso tempo un’opportunità: anche qui, non è difficile stimare la spinta al Pil che verrebbe da una riduzione nei divari di reddito fra le due aree del Paese, attraverso maggiori investimenti per migliorare quelle dotazioni infrastrutturali di cui il Mezzogiorno ha bisogno come del pane.
Mettiamo assieme le disparità di genere e i divari territoriali, con due semplici cifre che ci possono far capire la portata della sfida che ci sta davanti: il tasso di disoccupazione in Italia è intorno al 9%, ma, per le giovani donne del Sud è di circa il 50%. Il Mezzogiorno è davvero un giacimento di crescita potenziale, una crescita che ridondi a beneficio dell’Italia tutta. L’Italia non crescerà se non vengono dati al Meridione i mezzi per sollevarsi da una storica e iniqua minorità. Il mercato interno del Sud è la gallina dalle uova d’oro del Nord. La priorità agli investimenti nel Mezzogiorno è una soluzione “win-win” per l’Italia intera.
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TASSO DI ATTIVITA’
Come scrive la Banca d’Italia (“Mezzogiorno e politiche regionali”, 2009), il dato significativo da considerare per valutare il divario territoriale italiano è il tasso di attività.[1] Il divario del tasso di attività Nord-Sud italiano è il più alto in ambito UE, raggiungendo, nel 2008, 27 punti percentuali, contro una media di 5 punti dei Paesi di confronto. Nel 2015, la differenza Nord-Mezzogiorno è scesa a 18 punti percentuali.
Dai dati ISTAT del lavoro per sesso e ripartizione geografica (2015, pag. 30, https://www4.istat.it/it/files/2016/12/6-lavoro.pdf ), si evidenzia che la “colpa” è del basso tasso di attività delle donne meridionali, che è pari ad appena il 39,3% (in leggero miglioramento, probabilmente grazie ai provvedimenti mirati alle donne dei Governi Monti e Letta, rispetto a 10 anni fa, quando si attestava al 36,5%), contro il 66,7% degli uomini meridionali e il 62,7% delle donne settentrionali. Vale a dire che, nel Mezzogiorno, quasi 2 donne su 3 sono inattive. Quasi come nei Paesi arabi.
Ne deriva che (i) è la donna la priorità di qualunque strategia di sviluppo del Mezzogiorno; e (ii) questa, però, esige un approccio duplice: economico e culturale.
[1] Il tasso di attività include il tasso di occupazione https://www.istat.it/it/files//2015/05/Glossario1.pdf.