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di GIUSEPPE LAVORATO
ADERISCO all’appello per dedicare l’8 marzo a Maria Concetta Cacciola, Giuseppina Pesce, Lea Garofalo e, con esse, a tutte le donne che hanno avuto la forza interiore di ribellarsi e contrapporsi alla ‘ndrangheta. Le tre nobili e sfortunate ragazze hanno aperto una breccia profonda nel muro dell’omertà, che è lo strumento fondamentale del dominio mafioso. Lo hanno fatto dall’interno delle proprie famiglie e, quindi, consapevoli che sarebbero andate incontro alle ritorsioni più gravi. Lo hanno fatto per amore dei propri figli, esaltando il sentimento più alto degli esseri viventi. Il loro è un gesto che può sconvolgere i comportamenti e la tenuta degli assetti criminali, perché ha la forza di parlare direttamente alle numerose persone che, pur appartenenti a nuclei familiari mafiosi, subiscono con sofferenza tale condizione. Perché la ‘ndrangheta infligge ferite e dolori profondi alle comunità nelle quali si insedia, ma produce lacerazioni e lacrime anche dentro le proprie famiglie. Nega ai propri figli il diritto di crescere liberi di costruirsi il proprio futuro. Li utilizza come strumenti della propria funesta arroganza di dominio. E quando qualcuno di loro ascende la scala delle gerarchie mafiose e diviene un boss ricchissimo e potentissimo, qual è la sua vita? Quella di vivere sempre nascosto, con la paura di essere ucciso dalla cosca rivale o di essere arrestato. Nelle comunità aggredite dal fenomeno criminale dilaga l’infelicità. E’ infelice l’imprenditore vessato, il cittadino impaurito, il lavoratore sfruttato e malpagato, il giovane disoccupato; lo sono ancor di più i ragazzi e gli emarginati adescati ed assoldati nella manovalanza criminale, ma lo sono anche gli appartenenti alle famiglie mafiose.
Non suscita sorpresa apprendere che al loro interno si accenda e divampi la ribellione di mamme che rischiano la vita per proteggere le proprie creature e sottrarle ad un futuro di lutti o di galera. La loro è certamente una ribellione senza calcoli nascosti, è la ribellione più limpida e sincera, quella dei sentimenti e del cuore. Sono donne meritevoli dell’abbraccio e del sostegno dello Stato e di tutte le persone che aspirano a vivere in una società liberata dall’oppressione criminale. Restare indifferenti, nell’opportunistica speranza che siano altri ad opporsi alla ‘ndrangheta e mettersi a rischio, è un comportamento miope che riduce le forze necessarie a vincere lo scontro.
Per fortuna , un numero sempre più alto di cittadini acquista coscienza dei propri doveri. Lo possiamo constatare giornalmente anche dal largo interesse e le crescenti adesioni suscitate dall’importante iniziativa assunta dal ‘Quotidiano della Calabria’.
L’ 8 marzo e le mimose sono il simbolo delle lotte delle donne per l’emancipazione, la libertà, i diritti. Dentro questo simbolo hanno pieno merito di essere collocati i nomi delle donne che hanno denunciato e denunciano le atrocità mafiose. Sono esse oggi in Calabria ed in Italia l’avanguardia della lotta per abbattere l’oppressione mafiosa, difendere i diritti sociali e conquistare nuovi traguardi di civiltà e progresso ( sono aspetti che stanno strettamente insieme).
In verità le donne sono sempre state l’avanguardia delle lotte sociali e civili. I miei ricordi risalgono alle raccoglitrici di ulive che, quando si collocavano alla testa delle manifestazioni, ci davano la certezza che la forza del movimento avrebbe vinto la battaglia. Che oggi parta dalla Calabria, nel nome di Maria Concetta, Giuseppina e Lea, l’appello per fare dell’8 marzo un giorno di lotta anche contro le mafie, costituisce un fatto importante.
Noi calabresi dobbiamo sentirci onorati di appartenere alla stessa terra delle tre ragazze e delle tante donne che lottando per la loro libertà , spesso sacrificando la vita, lottano per la libertà di tutti. Danilo Chirico ed Alessio Magro hanno percorso in lungo ed in largo la nostra regione per ricostruire le loro storie e raccontarle nel bel libro ”I dimenticati”. Tutti noi abbiamo il dovere di ricordarle ed additarle come nobile esempio.

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