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di ALESSIO MAGRO

Cetta Cacciola, insieme a Giuseppina Pesce e Lea Garofalo, insieme a Tita Buttafusca e alle altre donne che hanno detto basta alle cosche – ai loro padri, fratelli, mariti, figli, zii, cugini e nipoti – tutte loro un pugno nello stomaco della Calabria indifferente. Non eroine, si badi bene, ma un esempio da seguire per riacquistare la dignità perduta e il vero onore dei calabresi.
Ha detto bene il direttore del Quotidiano della Calabria, Matteo Cosenza: il prossimo 8 marzo è la festa delle donne che hanno sfidato la ‘ndrangheta, è la festa di chi vuole sfidare le cosche che odiano le donne. Per questo riteniamo, come Stopndrangheta.it, di raccogliere l’appello che, ancora una volta, viene dal Quotidiano. Per fare, come ha invocato Filippo Veltri nel suo intervento, la nostra parte. Proviamo a dare un contributo con uno sforzo di analisi e di impegno.
Mancano le prove per poter dire che Cetta è stata uccisa. Anche se il gip che ha emesso l’ordinanza di custodia cautelare nei confronti dei genitori e del fratello si chiede, e noi con lui, come sia possibile che la ragazza sia rimasta sola in casa quel pomeriggio del 20 agosto, se per un anno intero non le è stato concesso un attimo di respiro, se dopo il suo ritorno l’hanno controllata a vista sempre e comunque. Anche se il medico legale che ha eseguito l’autopsia si trincera dietro l’inesistente letteratura: non esistono casi accertati di omicidio consumato facendo ingerire acido muriatico alla vittima e dunque è impossibile stabilire se Cetta abbia agito da sola o sia stata forzata. Anche se nelle conversazioni intercettate quella data del 20 agosto ritorna spesso, nei giorni precedenti, come il termine fatidico della “liberazione” di Cetta dal programma di protezione. In fondo, che sia stata uccisa o abbia scelto la libertà definitiva del suicidio poco importa. Quello che conta è aver individuato, in sede di indagine, una strada praticabile per affermare la piena responsabilità della sua famiglia.
Detto ciò, non si può più tacere: è l’ora di fare i conti e di indicare le cose col loro vero nome. Ci sono le carte, si sono le intercettazioni, sono state svelate le manovre dei familiari e degli avvocati “consigliori” per costringerla a ritrattare. Eppure c’è chi continua a delirare, a macinare fango, a speculare su una vittima e ridurre di nuovo al silenzio una donna di Rosarno che ha sfidato la ‘ndrangheta, ha violato l’onore mafioso della sua famiglia, ha cercato di fuggire, è morta in nome della libertà.
A Rosarno, e non solo, le cosche odiano le donne perché hanno paura di loro. Le odiano perché sanno che quelle donne hanno il potere di mandare in frantumi un mondo feudale costruito su un distorto senso dell’onore, della famiglia e dell’appartenenza. Sanno che riferimenti femminili credibili possono rappresentare il grimaldello per scardinare il dominio familiare su quelle donne chiuse in casa e costrette al silenzio.
Non è un caso se i genitori di Cetta, anche la madre con particolare cattiveria, inveiscano contro “la marescialla”, la carabiniera che in caserma ha raccolto per prima le confidenze della figlia. Ha ascoltato con sensibilità, ha parlato con tatto, ha offerto l’appiglio sperato. Se al posto di una donna ci fosse stato un milite d’altri tempi coi baffi e la pancia forse Cetta non avrebbe osato parlare.
Non è un caso se nelle intercettazioni gli insulti peggiori sono per la magistrata Alessandra Cerreti, il pm della Dda che ha rappresentato lo Stato di fronte a Cetta e lo rappresenta nel rapporto con le collaboratrici Rosa Ferraro e Giusy Pesce. È un accanimento mirato, che tradisce paura, quello del padre Michele e ancor di più quello della madre Anna: “Se poteva morire quella bastarda… zoccola… buttana”. Un magistrato donna che può surrogare, anche inconsciamente, al ruolo materno è la più pericolosa di tutte le minacce all’istituzione ‘ndrangheta.
Le carte dicono che Cetta, una ragazza solare, ha tante amiche. Ma molte di loro sono costrette ad abbandonarla perché le pressioni della sua famiglia sono forti e alla fine è difficile starle vicino. Una di loro resiste, è la sua àncora, forse la sua confidente, di certo un punto di riferimento.
Il lungo dialogo telefonico tra le due amiche (l’intercettazione è on line su Stopndrangheta.it) è un affresco drammatico, vivo, palpitante, del mondo femminile in terra di ‘ndrangheta. Un mondo che ha bisogno di sponde.
Vergognamoci tutti, in questo caso sì!, se queste sponde non le trovano. Vergognamoci di fronte alla cognata di Cetta, moglie del fratello Giuseppe – che qualcuno descrive come “un malato di mente” che “è capace di tutto” – che vive col terrore di essere sotto osservazione ogni attimo della sua vita. Vergognamoci di fronte a Ilaria La Torre, picchiata a sangue dal marito Francesco Pesce, sfuggita per caso a un tentativo di sequestro, capace da sola di ritrovare la sua libertà e di testimoniare in aula.
Vergognamoci di fronte alla memoria perduta delle vittime dell’onore ‘ndranghetista: di Annunziata Pesce e Maria Rosa Bellocco, ammazzate un trentennio fa e dimenticate, di Maria Teresa Gallucci, Nicolina Celano e Marilena Bracaglia, trucidate a Genova nel 1994, di tante altre. Storie che abbiamo provato a raccontare, e di certo abbiamo recuperato dall’oblio, nel libro Dimenticati.
Vergognamoci tutti nello scoprire che in Calabria c’è un solo centro antiviolenza, a Cosenza. Un centro che Cetta ha provato, in un lampo di coraggio, a contattare. Non ha parlato con nessuno quel giorno, forse perché le linee erano intasate. E se ci fosse stato un centro antiviolenza a Reggio? Se tutte le donne che convivono con la ‘ndrangheta trovassero sul loro cammino tante “marescialle”, magistrate, altre donne capaci di aiutarle, altri esempi in carne e ossa? Cosa accadrebbe? La morte di Cetta ci dice che una rivoluzione rosa è possibile. L’antindrangheta deve provarci.

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