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di FILIPPO VELTRI
È DIFFICILE tentare una narrazione normale, una ordinaria normalità nel racconto della Calabria (così come ha avviato domenica scorsa su questo giornale il direttore Matteo Cosenza) quando ti capitano tra le mani storie come quella di Cetta. E’ difficile, assai difficile. Da lì, da qui, bisogna partire e ne hai voglia di dividere le cose buone da quelle cattive quando leggi di una storiaccia come quella e poi ti ricordi di altre un anno fa e altre ancora due anni fa e così via. E poi ti leggi la relazione dell’Antimafia con la sua terribile parola “strutturale” a proposito della ‘ndrangheta. E poi quei dati dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. Da qui, da lì, bisogna ripartire e da un corridoio stretto stretto nel quale ci si può incamminare ma che bisogna percorrere con onestà intellettuale, coraggio e rigore. Tanto rigore. Perché si può cadere da un lato ma anche dall’altro e cioè nell’omettere, anche in buona fede, i dati di fatto per cercare quella normalità di narrazione. La Calabria non ha bisogno di questo ma di un racconto senza sconti per nessuno, lucido nella sua analisi sulle tante cose che non vanno e sulla pervasità mafiosa dunque in primo luogo. Ha bisogno anche che le poche luci che fiammeggiano non si spengano, non vadano disperse, non si affievoliscano ma anzi crescano e si sviluppino. Questo è un compito di un giornale onesto ma è compito che ognuno dei calabresi onesti – anche qui finiamola con i luoghi comuni sulla “stragrande maggioranza”… io non so se siano la stragrande maggioranza – faccia la propria parte, si spenda, si aiuti e aiuti. Non è un punto di partenza minimale, come potrebbe apparire in prima battuta, ma un grande approdo, decisivo per una società che è cresciuta nel suo complesso male, aggrovigliata in un inestricabile patto scritto e non scritto tra istituzioni, politica, cultura, economia in cui i meriti sparivano e saliva l’imperscrutabile, il favore, poi l’affare e alla fine spuntava e spunta il convitato di pietra, che assume sembianze diverse ma che alla fine muta la convivenza civile, ne fa un’altra cosa, cambia le regole del gioco, inserisce lì dove è possibile il governo mafioso. Questa è la verità, dura da accettare magari, ma vera. Non tutto è Rosarno? Certo che è così, ma anche dentro Rosarno non tutto è come nella storia di Cetta. Ma cosa cambia questo nel giudizio complessivo che noi calabresi, ancor prima degli altri, dobbiamo dare di noi stessi e della nostra terra? Torniamo, allora, al fare ognuno qualcosa e farla bene. Questo giornale ha organizzato – ormai tempo fa – una grande manifestazione di resistenza civile alla ‘ndrangheta a Reggio Calabria. Come è noto andò benissimo. Poi nessuno ha raccolto quella bandiera, quelle bandiere. È stato lasciato morire tutto. Mi sono chiesto e torno a chiedermi il perché. Una manifestazione, due manifestazioni, dieci manifestazioni non cambiano, certo, la vita ma forse curvano la storia, almeno la cronaca. Se non altro mutano la percezione nostra al di là del Pollino. Torniamo allora a quella assenza di resistenza civile (scusatemi per la retorica) che però è indispensabile in questo momento, e ai motivi di questo stato dell’arte. Parliamo di resistenza civile ma è la stessa cosa degli spettatori che stanno a guardare di cui ha parlato il procuratore Pignatone. Dopo la storia di Cetta da Rosarno ancora una volta l’unica proposta – giusta, sbagliata, insufficiente, fate voi – è venuta ieri dal direttore di questo giornale. Per il resto il piattume – credetemi ormai vomitevole – delle dichiarazioni a raffica di solidarietà, di condanna etc etc. Decine, centinaia. Don Luigi Ciotti un giorno mi disse: non di questo abbiamo bisogno, non di solidarietà vacue ma di condivisioni vere. Mi chiedo e vi chiedo: si può andare avanti così? Come può avanzare quella ordinaria normalità se contestualmente non fa passi da gigante quella resistenza civile di cui non si vede nemmeno l’inizio? E chi la deve fare quella resistenza civile? E chi la deve promuovere? Qui si arriva al problema dei problemi, sul quale con tutta onestà negli ultimi tempi ho anche cambiato prospettiva: la società – si diceva – la buona società civile, la cultura la buona cultura, l’università la buona università, il sindacato.Tutto vero ma tutto viene dopo, se non incardiniamo la discussione su un binario di verità: il problema drammatico della Calabria di oggi è la politica. E non lo è tanto e non lo è solo negli evidenti tratti di contiguità, di legami, di rapporti. Quello è il tracciato addirittura più semplice da combattere. No, il vero problema è che siamo in presenza nel suo complesso, nel suo sentire comune direi, di una classe politica che non è in grado oggi di cogliere lei quella domanda di narrazione normale, di farvi fronte con gli strumenti di governo delle istituzioni che ha e, dunque, alla fine di rappresentare quella parte migliore della società. Una parte che è china, muta ma non sorda, che vorrebbe gridare “ma io che c’entro con la mafia?” Ma che alla fine si ritrova sempre più sola, sempre più muta, sempre più inascoltata e alla fine diventa anche sorda, e quindi la battaglia l’abbiamo persa. In questo sentiero stretto stretto qualcuno deve pure incamminarsi, deve sporcarsi le mani, deve ragionare con rigore ma con intelligenza, altrimenti alla fine le macerie cadranno su tutto e tutti, e non ci pare né giusto né normale.
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