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Non è «logica» ed è «smentita» la tesi del giudice per le udienze preliminari di Catanzaro, Abigail Mellace, con la quale veniva esclusa l’esistenza di un’associazione per delinquere tra alcuni degli indagati dell’inchiesta Why Not sui presunti illeciti nella gestione dei fonti pubblici. A sostenerlo sono i giudici della Corte d’appello di Catanzaro nelle motivazioni della sentenza di secondo grado nei confronti di 16 imputati. Il processo d’appello si è concluso il 27 gennaio scorso con la condanna, tra gli altri, ad un anno per il reato di abuso dell’ex presidente della Regione Calabria, Agazio Loiero, del centrosinistra; il non luogo a procedere per intervenuta prescrizione nei confronti dell’ex Governatore, Giuseppe Chiaravalloti, del centrodestra; l’aumento della pena a 3 anni e 10 mesi (2 anni in primo grado) nei confronti dell’imprenditore ed ex presidente della Compagnia delle Opere della Calabria, Antonio Saladino.
L’ASSOCIAZIONE PER DELINQUERE. Nelle cinquanta pagine della motivazione della sentenza d’appello i giudici, nell’affrontare il tema dell’esistenza di una associazione per delinquere, sostengono che «viene smentita la tesi, sostenuta dal Gup, secondo cui un’associazione per delinquere costituita per realizzare reati contro la pubblica amministrazione è configurabile solo se facciano parte funzionari pubblici o, in genere, soggetti che appartengano all’Amministrazione».
SALADINO E I POLITICI. Nell’affrontare il ruolo di Antonio Saladino i giudici della Corte d’appello di Catanzaro sostengono che «il giudice di primo grado non ha disconosciuto il ruolo verticistico del Saladino, nè i suoi legami con la politica e le alte sfere della burocrazia regionale».
IL RUOLO DI LOIERO. Tra le alte sfere c’era Agazio Loiero, che all’epoca era presidente della Giunta regionale: «Molteplici – secondo i giudici – sono gli argomenti per smentire l’interpretazione giuridica del primo giudice e si tratta degli stessi argomenti in forza dei quali appare evidente la piena consapevolezza di Agazio Loiero e Nicola Durante di contribuire in maniera determinante all’affidamento». Il capo d’imputazione in questione è relativo al progetto del censimento del patrimonio immobiliare della Regione Calabria. Tra gli argomenti citati dai giudici della Corte d’appello c’è quello relativo ai «ripetuti incontri, anche in sedi extra-istituzionali, con soggetti che, stando al loro dire, non avrebbero avuto titolo per interloquire (detto in parole povere perchè intrattenersi ripetutamente con rappresentanti del consorzio che pressano per ottenere nuovi affidamenti se poi ci si difende dicendo che tale decisione spettava al dirigente e non al politico?)». C’è poi la «pervicacia con cui la Merante, anche approfittando del rapporto amicale con il fratello del Presidente della Giunta regionale, ha dapprima cercato di instaurare un contatto diretto con il massimo esponente dell’Ente e, in un secondo momento, avendone percepito il potere di influenza su questo, si è spesa per ottenere il consenso del fidato consigliere giuridico Durante su una soluzione condivisa». I giudici affrontano poi il tema, più volte ribadito dalle difese, relativo all’affidamento del progetto finalizzato a salvaguardare i livelli occupazionali. «Risulta di tutta evidenza – scrivono – che se l’ente avesse voluto a tutti i costi esternalizzare il servizio, avrebbe potuto comunque ottenere lo scopo preso di mira adottando procedure legali anzichè protrarre un affidamento illegittimo e, così, di fatto continuare a favorire i soliti raccomandati e foraggiare le solite clientele (o consolidarne di nuove)».
LA POSIZIONE DI CHIARAVALLOTI. Nei confronti di Chiaravalloti, imputato del reato di abuso d’ufficio, la Corte d’appello ha emesso una sentenza di non luogo a procedere per intervenuta prescrizione. Ma l’assoluzione in primo grado è ritenuta invece una «forzatura». La ricostruzione del giudice di primo grado «non convince – sostengono i giudici della corte d’appello – perchè essa è frutto di una forzatura nella parte in cui si attribuire a Chiaravalloti un atteggiamento di colposa leggerezza laddove neanche lo stesso imputato era giunto a tanto». Nelle motivazioni si ricorda inoltre che «in una delle agende del Saladino sono stati rinvenuti numeri telefonici, fissi e mobili, istituzionali e privati, personali e intestati a persone dell’entourage familiare e lavorativo dell’uomo politico, disponibilità denotante una conoscenza tutt’altro che superficiale». «Dalle captazioni alle quali – proseguono i giudici – è stata soggetta Nadia Di Donna, una delle principali collaboratrici di Saladino nella fase di selezione delle domande e di avviamento al lavoro, la Di Donna fa espressamente riferimento a dipendenti della società Why Not raccomandati dal Chiaravalloti nonchè ad accordi intervenuti tra questi ed il Saladino ai fini dell’invio dei curricula dei nuovi lavoratori da assumere».
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