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Luca Palamara

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L’hanno messo in coma giudiziario, Palamara. E da ieri come giudice non esiste più: è nella sua bara di cristallo come una barbuta Biancaneve e non può più muoversi né fiatare. Un trattamento perfetto. In questo modo il Consiglio Superiore della Magistratura ha risolto il proprio caso, nel quale il CSM è tutto: giudice ma prima di tutto imputato, testimone e corte suprema, senza far torto a nessuno, tranne che alla verità. Verità che non sfugge a nessuno: il sistema con cui il CSM funziona è stato più volte portato alla luce da giudici che indagavano su altri giudici, come nel caso di Palamara. Ma il problema non è Palamara, il problema è il sistema che va sotto la sigla del Consiglio Superiore della magistratura, che provvede a tutte le scelte e i compiti di indirizzo della magistratura.

È la sua testa politica che avrebbe lo scopo di tutelare la Giustizia mettendola al riparo dalle intrusioni e dalle pressioni della politica, per poter garantire al cittadino sentenze non pilotate da altri interessi che non siano quelli della Giustizia stessa. Invece, il caso Palamara oggi e altri casi analoghi negli anni scorsi hanno portato alla luce un sistema di contrattazioni, favori, pressioni e mercati di influenze fra alcuni magistrati e alcuni politici. Dunque, l’emersione del “caso Palamara” è stato prima di tutto l’emersione del caso CSM e delle sue anomalie.

E per questo il CSM, di fronte al caso Palamara che si sarebbe trasformato in un processo al Consiglio stesso, ha agito in modo tale che un tale processo non avvenisse e che tutto l’apparato difensivo e testimoniale del giudice incriminato non potesse arrivare in aula. Come? Sbarazzandosi in un colpo solo dell’imputato.

RIDOTTO AL SILENZIO

E dunque la sentenza è stata più che una condanna a morte, perché Palamara è stato cacciato dal corpo della Magistratura e allo stesso tempo ridotto al silenzio. L’imputato, come ricorderete, era stato vittima di intercettazioni Trojan che lo avevano beccato mentre in allegra socialità discuteva con altri suoi colleghi e con un paio di deputati i destini di alcune procure. Una a te, una a me, una a mamma che son tre. Tutto regolare. Le Procure – abbiamo dovuto imparare negli anni – si assegnano secondo una consultazione amicale politica a forma di cupola, in cui chi può si sceglie il giudice che gli fa comodo e chi non può s’attacca.

NON SIAMO IN PRUSSIA

Tutti conosciamo la vieta e l’edulcorante storia del “giudice a Berlino”. Bè’, noi non siamo in Prussia e il “sistema Palamara” aveva dimostrato – per iniziativa di altri giudici inquirenti, quelli di Perugia – che la nomina dei capi delle Procure avviene di norma per intrallazzo, amicizia politica, do ut des o come dicono (sbagliando) gli inglesi qui pro quo. In italiano : io ti do una cosa a te e tu mi dai una cosa a me, e stiamo pace. Povero Palamara.

Lui, se abbiamo capito bene, era un giudice disciplinato e correntizio, faceva quel che gli dicevano di fare, si stava accuorto, trattava e faceva patti. Embè? Dov’è il canchero? No si fa forse così in Italia? ; ci fu un tempo, presidente del Consiglio superiore della magistratura il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, in cui il suddetto Cossiga, stufo degli atti di ribellione del CSM di allora, chiamò l’Arma dei carabinieri, si fece passare il comandante generale e gli disse di spostare in piazza Indipendenza, dove ha sede la casa madre del Palazzo dei Marescialli., un reparto antisommossa con manganelli, armi e gas lacrimogeni. Poi affrontò il vice presidente del CSM (quello che comanda davvero) il democristiano Giovanni Galloni e lo minacciò di intervento militare in nome della legge.

Cossiga è morto da dieci anni e l’abbiamo celebrato proprio in questi giorni. Un giorno, il povero Palamara era ospite da Maria Latella con quell’aria un po’ sgraziata e barbuta e Latella fece intervenire per telefono Cossiga il quale si rivolse al suo ospite e gli disse (lo potete rivedere su Youtube): “Lei, giudice Palamara non gode della mia stima. Io non credo che lei sia un buon giudice e inoltre il suo nome evoca quello di una specie di tonno pregiato. Vede? La sto offendendo”.

Palamara impassibile mormorava: “Prendo atto signor Presidente, che cosa devo dire”. “E infatti – diceva Cossiga – lei non può dirmi niente, ma se vuole può querelarmi. Lei lo sa, sì, Palamara, che può querelarmi, vero?”. E così via. Lo fece nero. Palamara, poveretto, non fiatò. E non ha fiatato neanche ieri quando lo hanno buttato fuori dall’ordine dei magistrati che pareva il capitano Dreyfus quando lo degradarono davanti al reggimento disposto in quadrato: spezzata la spada, calpestato il kepì, via le mostrine. Così, lui, Palamara: cacciato come un cane. Col marchio della vergogna. Ormai, che Palamara abbia tutti i torti che l’intercettazione ha messo in piazza, lo sappiamo.

L’INTERCETTAZIONE

Sappiamo anche che quell’intercettazione era inutilizzabile senza il consenso della Camera perché coinvolge un deputato. Ma sta tutto lì. E il povero Palamara, non contento della disgrazia che gli era capitata fra capo e collo avendo fatto quello che fanno tutti, ebbe la malauguratissima idea di dire che era forse ora di raccontare in quale clima e con quali pressioni si erano svolti i processi contro Silvio Berlusconi. Allora si è sentita la lama della mannaia piombare giù lungo gli scalmi della ghigliottina e zàc, la testa col barbone cadere nel paniere. Aveva parlato del frutto proibito: la massa incredibile e mai vista dei processi contro Berlusconi con cui quell’uomo politico da quando è sceso in politica è stato trascinato sui banchi degli imputati più di quaranta volte.

Palamara aveva detto proprio ciò che si sarebbe dovuto temere come un cecio sotto la lingua. E l’aveva spiato. Ma in che mondo credeva di essere. E a quel punto, in un disperato tentativo di muoia Sansone con tutti i filistei, il povero Palamara aveva avuto la bell’idea di stilare un listone di testimoni, tutti giudici come lui, che avrebbero dovuto sfilare davanti alla barra del tribunale del Consiglio superiore per confermare le malefatte di Palamara aggiungendo ciascuno gli altri nomi, il contesto, i mandanti e insomma quella cosa in Italia protetta dal WWF che è la verità. Era proprio pazzo quel brav’uomo: aprendo di cavallo aveva scoperto il re ed è stato subito scacco matto: ah, sì? Tu vorresti nientemeno che chiamare i tuoi testimoni? E poi li fai parlare? E pensi così di sputtanare il sistema? Ma con chi credi di avere a che fare? E gli hanno spiegato con i disegnini sul quaderno ciò che gli sarebbe capitato: non avrebbe nessun processo con testimoni, ma soltanto una sentenza fulminea, secca, definitiva e irreversibile: la condanna a morte del suo nome come giudice e la sua cacciata per sempre dai ruoli.

E così è stato: Palamara vista la disgrazia puramente casuale che gli era caduta fra capo e collo, sapendo di essere come gli altri o comunque non peggio e che il sistema funziona con le sue regole, aveva pensato come in un romanzo di Victor Hugo di arrivare alla scoperta finale della verità, alla chiamata di correo, alla catarsi della giustizia e sognava di pronunciare una grande orazione che avrebbe concluso dicendo: “Se io sono colpevole, colleghi giudicanti, tutti siamo colpevole voi per primi”.

Ma, come abbiamo visto, col cavolo che gli hanno permesso di esibirsi in questo pezzo di teatro. L’hanno cacciato come un cane, senza dargli la possibilità di difendersi dimostrando che la pressione ambientale era uguale per tutti, gli hanno impedito di esercitare realmente la sua difesa e di passare all’attacco e gli hanno semplicemente tagliato la testa, spedendolo nel limbo di casi collaterali della giustizia italiana, anticamera del dimenticatoio. Povero Palamara, povero giudice italiano, divorato come un tonno di scarsa qualità per aver agito come molti altri nella sua stessa condizione. Ha fatto da capro espiatorio perché certamente non era innocente, ma ha pagato per aver osato minacciare il sistema rivelando tutto quel che sapeva, con prove e testimoni.


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Francesco Ridolfi

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