La Corte costituzionale
5 minuti per la letturaESATTAMENTE 50 anni fa, nel 1970, venivano istituite le Regioni ordinarie, mezzo secolo più tardi il coronavirus ha evidenziato con forza che il sistema delle autonomie non funziona, serve un sistema più integrato che eviti che, in una materia fondamentale come la sanità, ci siano, di fatto, stati autonomi e non sempre efficienti. Ma il problema non riguarda solo la sanità, le Regioni, col passare degli anni, hanno conquistato sempre maggiore autonomia e spazio, alcune volta anche oltre quanto prescritto dalla Costituzione.
La conferma arriva dai numeri della Corte costituzionale, solamente nel 2018 i ricorsi generati tra lo Stato centrale e gli Enti locali sono stati quasi la metà di quelli complessivamente presentati nell’anno davanti alla Consulta. Questo perché il governo è spesso obbligato a ricorrere ai giudici per “invasione di campo” delle Regioni, troppe volte vittime di esagerato protagonismo. Nel 2018 le sentenze emesse dalla Corte sono state 250, di queste 122 hanno riguardato il conflitto tra Roma e le Amministrazioni locali, quindi quasi una sentenza su due ha cercato di mettere ordine nel complesso reticolo delle competenze legislative statali e regionali disegnate dal nuovo Titolo V. A partire dagli spazi di manovra consentiti a ciascuno dei due attori dalla legislazione concorrente, dove gli sconfinamenti sono potenzialmente più facili. Non solo: le sentenze per dirimere le competenze sono aumentate rispetto al 2017 quando furono 106 su 281 totali, quindi il trend è in crescita, segnale evidente che le Regioni stanno provando a ritagliarsi sempre maggiore autonomia, a discapito dell’unità territoriale e lo Stato prova a difendere le proprie prerogative.
Un contenzioso che si è palesato definitivamente con la pandemia Covid-19. In 18 anni di Titolo V riformato – quello che regola i rapporti tra lo Stato e le amministrazioni periferiche – la Corte ha avuto il suo bel daffare. Già nel 2002 erano stati presentati complessivamente 107 ricorsi. Delle 2.152 sentenze emesse sino al 2018, oltre la metà, 1.131, è di illegittimità costituzionale. A conferma che il presidio della Consulta è necessario per evitare il caos delle competenze. La maggiore conflittualità tra lo Stato e le Regioni riguarda la Regione Toscana (153 ricorsi), seguita poi dal Veneto (125): non a caso due degli Enti locali che invocano maggiore autonomia. Un braccio di ferro che potrebbe anche farsi più intenso se dovesse andare in porto la riforma sull’autonomia differenziata. Il maggior spazio di manovra chiesto dalle Regioni ai sensi dell’articolo 116 della Costituzione potrebbe, una volta concesso, riversarsi sul contenzioso davanti alla Corte costituzionale. Le conseguenze della riforma regionalistica e le disfunzioni che ha generato vanno avanti, però, da quasi due decenni, mitigate da faticose conferenze Stato-Regioni nonché da continui contenziosi presso la Corte costituzionale.
È constatazione generale che era molto più funzionale alla gestione di uno Stato unitario la situazione che esisteva prima del 2001 perché la riforma non ha migliorato né spesa pubblica né lo spirito di unità nazionale. E la sanità, a cui è destinato circa l’80 per cento di ogni bilancio regionale, non ha fatto certo quel salto di qualità, come il coronavirus ci ha sbattuto davanti agli occhi. Sistemi sanitari che venivano definiti di massima eccellenza, come quello lombardo, sono stati travolti dalla pandemia e sono venuti a galla tutte le pecche e le fragilità. Ma che maggiori poteri alle Regioni non porti a vantaggi e miglioramenti lo certifica anche la sezione “Autonomie” della Corte dei Conti, analizzando proprio il comparto sanitario: tra il 2006 e il 2017, il deficit sanitario si è ridotto e quasi annullato nelle Regioni del Sud sottoposte al monitoraggio o controllo dei ministeri della Salute e dell’Economia, mentre è raddoppiato nelle Regioni del Nord a Statuto speciale che godono di maggiore autonomia e libertà di spesa.
È quanto emerge in una relazione al parlamento dei magistrati contabili sull’attuazione del federalismo fiscale. «Laddove il monitoraggio esterno si riveli meno incisivo – si legge – a fronte di maggiori spese si verifica che non ci sia chiarezza sulla ragione delle stesse (è il caso di Valle d’Aosta, Friuli-Venezia Giulia, Trento e Bolzano), oppure che si vengano ad accumulare significativi disavanzi (è il caso della Regione Sardegna). Per contro, nelle Regioni sottoposte a monitoraggio (“leggero” o più stringente per gli enti in piano di rientro dal deficit) si è riscontrato un netto miglioramento dei risultati di gestione». Ed in effetti i numeri sono eloquenti: tra il 2006 e il 2017 il deficit si è ridotto nelle Regioni sottoposte a monitoraggio, quindi a maggiore controllo statale, passando da -1 miliardo ad appena -82 milioni; stesso andamento per le Regioni sottoposte a Piano di rientro, quindi ad un controllo ancora maggiore, dove il deficit è passato da -4 miliardi a -223 milioni. Risultato del tutto opposto nelle Regioni a statuto speciale e nelle due Province autonome del Nord, dove la Corte dei Conti rileva una diversa tendenza: da –600milionidel 2006 a circa a -1,2 miliardi nel 2017. In sostanza, il disavanzo è raddoppiato.
Questo fa, quindi, dire alla Corte dei Conti che troppa autonomia nella gestione del comparto sanitario è controproducente sul controllo delle spese. «All’analisi suesposta – si legge nella relazione dei magistrati contabili – conseguono diverse considerazioni. Una prima riguarda l’efficacia degli interventi di contenimento della spesa. Ed invero, laddove lo Stato non ha strumenti d’intervento diretto sulla dinamica di spesa, le politiche di contenimento sono state meno efficaci. Le Regioni a statuto ordinario, infatti, sono soggette a monitoraggio annuale ovvero, qualora in disavanzo, a più verifiche tecniche in corso d’esercizio relativamente al piano di rientro sottoscritto». Per i magistrati, questo determina anche «un rilevante profilo di criticità» nella «determinazione del fabbisogno sanitario nazionale e del relativo riparto tra le Regioni».
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