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di WILLIAM RANIERI
Un personaggio come il professore Mario Monti che non è un politico, che pare sia stato chiamato per salvare l’Italia, che ha incassato una fiducia plebiscitaria, perché subisce imperturbabile l’onta di vedere il provvedimento di politica economica del suo governo contestato, più o meno, da tutti i partiti? Come mai non si dimette? Chi mi spiega che relazione c’è tra lo spread, i vari indici di borsa FTSE e l’occupazione, lo sviluppo, il lavoro? Che differenza c’è tra l’allarmismo sulla situazione italiana (fallimento, Monti ultima spiaggia, situazione catastrofica) che alte cariche dello Stato e della politica trasmettono ai cittadini e il terrorismo psicologico? Qualcuno ha scritto che sotto uno shock creato da una crisi “economica“ (il virgolettato è mio), le grandi istituzioni finanziarie mettono sotto pressione (e ritengo non mettono solo sotto pressione, ma decidono anche altre cose) i governi tramite lo strumento del debito pubblico, per fare approvare riforme liberiste contro gli interessi generali delle popolazioni e a favore di lobby e multinazionali. Chi mi sa spiegare l’equità fiscale della funzione investimenti/ammortamenti/defiscalizzazione degli investimenti? Da chi e come è stato quantificato in Italia il livello di ricchezza che delimita la soglia di povertà? Perché, in senso opposto, non è stata stabilita una misura eticamente accettabile di profitto? Poiché c’è tanta polemica sulla tassazione dei grandi patrimoni, perché non si interviene nella fase della loro formazione? Mi spiego meglio: poiché nel pragmatismo neoliberista lo Stato, nella fase di recessione, ha l’obbligo sociale e morale di intervenire, perché il mercato nei momenti di sviluppo non restituisce allo Stato quanto ottenuto durante la recessione? Come si fa a conciliare una moneta unica e un mercato unico con 27 politiche economiche nazionali e magari confliggenti? È presente in Europa il senso di solidarietà? Esiste un principio di logica di sviluppo comune? Cosa c’entrano il Pd e la Cgil (ma anche gli altri sindacati a seconda dei governi; oggi sono uniti solo perché non ci sono i partiti al governo, o perché ci sono tutti) con la tutela dei pensionati? E la Lega? Come fa l’Udc dell’onorevole Casini ad essere il partito più in linea con il governo Monti e presentarsi come il difensore delle famiglie? Per concludere, non una domanda, ma una breve considerazione che ritengo meritevole di qualche attenzione, alla luce degli accadimenti degli ultimi mesi e settimane. Negli anni ’60, ’70, ’80 e in parte anche negli anni ’90, lo sviluppo economico, il progresso tecnologico e la specializzazione del lavoro hanno consentito una distribuzione di ricchezza diffusa, ma non generale, né lineare, che ha prodotto nella società una stratificazione socio-economica con conseguente frammentazione della classe lavoratrice – più attenta a desideri di realizzazione personale che non alla verifica dei cambiamenti dei rapporti di potere –, fino a farle smarrire il senso di appartenenza comune. Questo fenomeno infatti non ha modificato la logica economica del mercato, ma al contrario ha reso più debole il lavoro attraverso la differenziazione degli interessi. La responsabilità della politica e dei sindacati è totale; divisi al loro interno per correnti e per categorie di lavoro hanno abbandonato il motivo della loro esistenza: perseguire gli interessi generali gli uni, tutelare il lavoro e la dignità di ogni forma di lavoro gli altri. Inoltre non sono stati capaci – o hanno avuto la loro convenienza – di restare lucidi e distaccati di fronte alle lusinghe di un sistema produttivo che in quel momento non voleva essere disturbato ed ha inventato per loro l’illusione della partecipazione e favorito la nascita di uno Stato sociale, frutto più di una concessione interessata che non di una realizzazione irreversibile di diritti. Questo pseudo contratto sociale apparentemente democratico (un contratto che non ha mai posto i contraenti sullo stesso piano; i centri di decisione restavano nelle mani del potere economico industriale/finanziario. I lavoratori o i loro rappresentanti non facevano proposte, al massimo discutevano l’ampiezza delle concessioni) non si fondava quindi sulla nascita di un nuovo equilibrio strutturale nel dualismo del rapporto di forza nel sistema sociale, ma da contingenze. E, si sa, quando il progresso e lo sviluppo sono misurati in termini di quantità e non anche di presa di coscienza diventa parte inevitabile del processo produttivo la ciclicità i mercati di sbocco non crescono con la stessa velocità della produzione; la globalizzazione dell’economia ha modificato la funzione dei paesi in via di sviluppo che si sono trasformati da potenziali consumatori in produttori, soprattutto per conto terzi, fortemente concorrenziali) che travolge non solo la produzione in senso tecnico, ma anche tutti i fenomeni sociali a questa collegati, rendendo incompatibile un patto sociale con le regole del mercato e ripristinando quei rapporti di forza preesistenti, sopiti, ma mai scomparsi: si torna al mercato, anzi al mercato assistito: questo è il cosiddetto neoliberismo (basti pensare a quello che sta succedendo alla Fiat. Cosa contano i partiti, i sindacati, i lavoratori? Cosa chiede la Confindustria a Monti? Quali sono nella manovra gli articoli più pregnanti in termini di assistenza ai fattori della produzione? Le conseguenze sono la creazioni di nuove specializzazione nel mondo del lavoro: i disoccupati, i sottoccupati, i precari e i cassintegrati). Cosa succederà ora? Un tentativo di soluzione non può prescindere dalla realtà dell’economica mondiale e di questo devono tenere conto le singole nazioni. Non pensare quindi a soluzioni nazionali, ma ad una soluzione per aggregazioni di nazioni (non è solo l’Italia che soffre, quando le istituzioni economiche mondiali parlano, parlano di Europa). Occorre pensare e credere veramente all’Europa. Ma questo dipende dal tasso di europeismo dei popoli e dalla loro consapevolezza della necessità di manovre economiche integrate che vanno al di là dei confini nazionali. Bisogna pensare ad un’Europa nella quale non sono sufficienti solo le enunciazioni di valori e di principi, ma che, se la si vuole veramente, occorre mettere mano a cose concrete per creare una economia ordinata e coordinata (che non può fondarsi su politiche monetarie, ma su politiche fiscali con territorio europeo che di pari passo creino sviluppo e crescita occupazionale; non sempre lo sviluppo crea occupazione ) al di fuori delle logiche nazionalistiche. Questo è il vero collante per fare l’Europa; poi le singole culture, le tradizioni, i costumi, le religioni possono benissimo continuare ad esistere e coesistere; le economie nazionali, come sono intese ora, no. Bisogna invertire la tendenza; più che a scambi culturali tra i popoli, che il tempo realizzerà, bisogna che le diverse nazionalità si rendano conto, per non soccombere alla concorrenza che nasce dalla globalizzazione con tutte le conseguenze del caso a livello di singole nazioni, dell’esigenza di scelte produttive territorialmente compatibili e capaci di sviluppare processi di crescita qualitativa, più refrattari agli andamenti oscillanti dell’economia quantitativa e quindi non più funzionali, come ora, al profitto e alla speculazione finanziaria nelle cui mani sono finiti purtroppo sia le scelte produttive sia gli Stati nazionali, ma funzionali al raggiungimento e mantenimento di uno sviluppo che sappia misurarsi con l’andamento dell’economia mondiale e che garantisca costanza di lavoro con conseguente benessere stabile e diffuso. Ma per fare questo i cittadini europei devono capirlo e volerlo, diversamente non esiste una nazione più forte e una più debole; troverà invece completa realizzazione l’onnipotenza della finanza che già in maniera latente decide come e dove intervenire e chi nominare.
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