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di CLAUDIO CAVALIERE
Cinquanta anni fa Leonardo Sciascia pubblicava “Il giorno della civetta”. Non è azzardato dire che per la prima volta, attraverso la letteratura, milioni di persone, che di mafia non sapevano e non intendevano, assunsero coscienza di tale fenomeno. La storia ci dice che il creatore del capitano Bellodi fu poi accusato di apologia della mafia e, nella polemica seguita sui “professionisti dell’antimafia”, di “porsi fuori dal consesso civile”. Naturalmente aveva ragione Sciascia sull’idea che l’antimafia non qualifica l’azione politico-amministrativa, soprattutto se è una scorciatoia per mettere in secondo piano la fatica dell’amministrare, dove i termini da tutelare sono altri: trasparenza, utilizzo minimale della discrezionalità, buon funzionamento delle istituzioni, competenza, questi sì strumenti concreti per non incoraggiare criminalità e malaffare. L’ho già scritto: cosa è l’antimafia politica esibita lo dicono immagini e cronache. Visto sindaci firmare protocolli di legalità e accodarsi al 41bis. Assessori consegnare ai bambini targhe per la legalità e seguire la stessa sorte. Amministratori presiedere conferenze per la legalità e poi vedersi disciolti per infiltrazioni. Presidenti di società municipali, nominati da sindaci antimafia, trasferiti in manette. Il tutto nell’occhio pubblico i cui cittadini si sentirebbero certo più tutelati se le istituzioni funzionassero meglio, con più trasparenza, con maggiore efficienza, favorendo un po’ meno gli abusi edilizi, con maggiore rigore verso chi evade i tributi locali, senza lottizzare gli spazi pubblici, proponendo servizi e non contributi, dando la massima attenzione alla gestione degli appalti. E non fa niente se questa fatica comporta la rinuncia a qualche inconcludente passerella antimafia, con bambini di scuole elementari privi di carta igienica nei bagni, precettati per vederli sbadigliare di fronte all’ennesimo predicatore convinto che sia la sua retorica a guidare il cambiamento. Oggi nessuno intende rinunciare ad autoproclamarsi antimafioso. La conseguenza è che il concetto è sottoposto a una tale tensione da perdere sostanzialmente di significato analitico e ideale. L’antimafia politica non ha filtri, discriminanti, valori, selezione. Tutti promossi, purché si dicano tali o purché facciano parte del club. Altra cosa è l’antimafia delle comunità, degli imprenditori antiracket, dei singoli resistenti, delle Angela Casella, dei giornalisti non reticenti, dei tanti eroi sconosciuti delle forze dell’ordine. A proposito delle famose targhe anti ‘ndrangheta ho sentito il presidente Magarò affermare che la lotta si fa anche coi simboli. La sua intelligenza sa che quella frase sulla targa dovrà reggere al peso dei fatti, perché simboli privi di contenuti rischiano di lasciare macerie una volta caduti. Forse sarebbe stato meglio se la dicitura fosse stata: “Qui ci costituiamo parte civile”, “Qui alla ‘ndrangheta chiediamo i danni per l’immagine”, come hanno fatto di recente due comuni del Milanese ai quali una sentenza del Tribunale di Milano ha concesso il diritto al risarcimento del danno. La ‘ndrangheta non è il nostro destino, su questo non ci sono dubbi. Si tratta di capire come accelerare questa separazione affatto consensuale, avendo però la consapevolezza che gli sforzi delle comunità civili non potranno mai compensare il degrado della politica lì dove si manifesta. Protocolli di legalità, codici etici e simili sciocchezze sono solo delle inutili sovrastrutture buone per qualche comparsata televisiva. Ciò che esiste è più che sufficiente, basterebbe pensare alle regole, alle leggi come alla “più ampia restrizione che rende gli uomini liberi”. Ma quando si arriva a questo punto è un po’ più difficile essere d’accordo. In Calabria ciascuno rivendica la sua motivata eccezionalità dalle regole, ognuno recita la sua soggettività, legittimando una emigrazione del potere dalla legalità alla tutela individuale che conduce dritti dritti alla collettiva rinuncia alla civiltà. Allora sì che l’antimafia sa tanto di polvere e rumore.
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