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“Ci renderà migliori”, dicevamo nel corso del lockdown degli ultimi mesi, “il Covid-19 ci ha tolto tutto ciò a cui eravamo abituati, mettendoci nella condizione di vivere con il poco che ci veniva concesso: ne usciremo ricostruiti”.
Per quanto potessimo crederci, però, le cose non sono andate così. Lo abbiamo visto negli assembramenti furiosi, nelle discoteche che credevamo non avrebbero riaperto, nei locali affollati senza l’ombra di una mascherina. Speravamo che un fiato di umanità si sarebbe salvato, ma non potevamo immaginare che, anziché migliorare, qualcuno sarebbe diventato anche peggio di com’era.
Nello slalom tra le feste e gli stabilimenti balneari stracolmi, a Massa Carrara, una madre si reca in spiaggia con il suo bambino. Il piccolo, di 13 anni, ha da poco subìto un trapianto: è una di quelle persone estremamente fragili che noi tutti abbiamo saputo fin dall’inizio che tipo di rischio corressero, se fossero stati raggiunti dal Covid-19. Da marzo a maggio siamo stati bombardati di Vademecum che elencavano con dovizia di particolari tutte le categorie di persone altamente esposte al pericolo, nel caso avessero contratto il Coronavirus. Anziani, individui con patologie pregresse, malati gravi: se ce lo avessero chiesto ad aprile, ci avrebbero trovati tutti molto preparati sull’argomento, mentre cantavamo a squarciagola da un balcone all’altro e riempivamo le nostre giornate di “andrà tutto bene”.
Due signore, però, si avvicinano oltre il metro di distanza (altra regola che, nella teoria, conoscevamo a menadito) alla mamma e al suo bambino, distendendosi all’ombra. La donna, consapevole del fatto che l’allarme Coronavirus sia tutt’altro che superato e che non intende abbassare la guardia su suo figlio, chiede alle signore di mantenere la distanza di sicurezza prevista dalle norme anti-Covid.
La risposta è furente, scortese, veloce come un fiume in piena e con la stessa forza devastatrice. “Il Covid non esiste, non c’è nessun distanziamento”, urlano le due donne, “se suo figlio è malato, se lo tenga chiuso in casa”.
La signora, in evidente difficoltà, è stata successivamente notata da alcuni passanti, che le hanno offerto aiuto. Questo però non è bastato, perché la donna si è trovata costretta ad abbandonare lo stabilimento insieme a suo figlio.
Ha poi dichiarato che stanno entrambi bene, ma che preferiscono rimanere all’interno del residence che li ospita, perché il bambino, in questo momento di particolare fragilità, ha paura di ritornare al mare.
Non possiamo fare a meno di chiederci cosa sarebbe successo se quella madre non avesse precisato che suo figlio fosse reduce da un trapianto. È davvero necessario, in un frangente storico di così grande incertezza sanitaria che ci coinvolge tutti, dover far mostra della propria cartella clinica, mettere sul tavolo l’elenco delle proprie patologie, per chiedere il rispetto del distanziamento sociale, che di fatto altro non è che l’applicazione di una regola?
In una lettera aperta pubblicata sul sito dell’AIL (Associazione Italiana contro le Leucemie), Caterina, paziente immunodepressa, spiega come la categoria dei trapiantati rischi di pagare le conseguenze più alte della pandemia. “Le categorie a rischio come la nostra non possono salvarsi da sole”, racconta, “tutti devono fare la propria parte seguendo le norme e le restrizioni. Quelle che per chiunque altro possono essere anche solo banali influenze, per noi potrebbero rivelarsi fatali”.
Qualora l’appello dei più fragili non bastasse, interviene anche la voce della scienza: in una recente dichiarazione resa a proposito dei trapiantati e della loro difficoltà di gestione di un contagio da Covid-19, il Dottor Paolo Corradini, Presidente della Società Italiana di Ematologia, ha spiegato che chi riceve (in questo caso) un nuovo midollo necessita di un periodo che va dai 6 ai 12 mesi affinché il nuovo sistema immunitario maturi e riprenda un regolare funzionamento.
Alcuni abituali frequentatori delle gioiellerie vi entrano con la curiosità incontrollabile delle gazze ladre, con la tendenza al bello degna di un esteta; ammirano la fragilità del cristallo dal di qua delle vetrine, la osservano come ipnotizzati, i giochi di luce li intrigano e la leggerezza del materiale li stupisce, considerata la sua bellezza e il peso del resto del mondo. Si fregiano di possederlo, di conoscerlo, di sapere come trattarlo e di esporlo nelle vetrine di casa nostra, ma rimane pura apparenza. Una volta che il cristallo sarà andato in frantumi durante una pulizia sbadata o una disattenzione, improvvisamente il suo aspetto non gli starà più così a cuore, e sarà molto più facile gettarlo via che tentare di nascondere il graffio o la rottura. Nella superficialità con cui essi trattano la delicatezza, emerge una verità scomoda: sono stati altruisti e attenti ai più bisognosi solo quando gli pesava meno farlo, cioè da casa loro, dalla quale dire le parole giuste bastava e avanzava perché il lockdown avrebbe comunque impedito loro di aiutare materialmente il prossimo; sono stati instancabili promotori del “tuteliamo i più fragili” solo finché quei fragili non sono stati colpevoli di aver rubato loro un po’ d’ombra; a quel punto la debolezza dei fragili si è trasformata da necessità in accessorio, quasi un vezzo, degno di essere apostrofato con squallidi inviti a “chiudersi in casa” poiché malati.
In quarantena le parole sono la cosa che si accumula più facilmente perché i gesti scarseggiano, eppure smaltirle è sembrato semplicissimo.
La morale di questa fiaba amara è che non esiste pandemia, tragedia o disastro che possa rendere migliori alcuni di noi, fondamentalmente perché c’è chi non è neanche buono di base; con quale pretesa si può erigere un grattacielo avendo a disposizione soltanto acqua e sabbia?
Scopriamo, quindi, che c’è chi è ancora del tutto incapace di trarre il meglio dal peggio, tanto inetto ad alzarsi sulle punte quanto capace di scavare ben al di sotto del fondo che ha già toccato, senza capire che l’unico modo per ricevere amore e cortesia dal prossimo è rendersi degni di quest’ultimo.
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