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ALL’APPUNTAMENTO d’autunno con l’Europa per l’esame sul Recovery Plan – al cui esito sono condizionate le risorse del Next Generation Eu – l’Italia arriva con una macchina statale farraginosa, una capacità di spesa delle risorse su cui lo stesso presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha riconosciuto i limiti del Paese, una produzione legislativa incagliata sullo scoglio dei decreti attuativi che restano pagina bianca. E ancora una pubblica amministrazione che appesantisce i conti delle imprese, un sistema giudiziario lumaca che ci costa almeno due punti di Pil, la frammentazione dei livelli decisionali figlia del federalismo differenziato.
Una macchina da rottamare, insomma, o perlomeno da riformare di sana pianta, come hanno suggerito anche i rappresentati delle istituzioni europee nella prima giornata degli Stati Generali convocati dal premier lo scorso giugno: dal presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, al numero uno della Bce, Christine Lagarde, che, tra le altre cose, hanno sollecitato la proprio la modernizzazione della pubblica amministrazione, infrastrutture digitali e un sistema giudiziario efficiente.
I DECRETI ATTUATIVI “SOSPESI”
Di ritardi e lentezze la macchina statale ha dato prova anche nella fase clou della emergenza sanitaria, poi divenuta economica e sociale, quando con la decretazione d’urgenza ha varato misure di sostegno alle famiglie, ai lavoratori e alle imprese per contenere i danni della crisi rivelatasi la più devastante dalla seconda guerra mondiale e interventi per aiutare il Paese a risollevarsi e ripartire.
Ma per molti provvedimenti la possibilità di centrare l’obiettivo è arrivata con tempi poco congrui in un contesto emergenziale: per esempio, l’iter per il superbonus 110%, attesissima misura contenuta nel Dl Rilancio di maggio cui è stato affidato il “compito” di spingere la ripartenza delle costruzioni, si è definitivamente concluso solo l’8 agosto con la circolare dell’Agenzia delle Entrate emanata a seguito del decreto attuativo interministeriale firmato due giorni prima, il 6, dal ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, e dello Sviluppo Economico, Stefano Patuanelli, dando finalmente il via alla piena attuazione del provvedimento dopo quasi tre mesi dal varo del decreto.
Sono ancora tante le misure messe in campo dal Governo in “stand by” proprio perché mancano i decreti attuativi, ovvero i provvedimenti – la cui stesura è affidata principalmente ai ministeri – che definiscono gli aspetti pratici, burocratici e tecnici necessari per applicare le norme. Ebbene, considerando i decreti più importanti varati dell’esecutivo per fronteggiare l’emergenza e sostenere la ripresa, dai dati dell’Ufficio per il programma di governo, emerge che sui 199 complessivamente richiesti dai decreti “Cura Italia”, “Liquidità”, “Rilancio” e “Semplificazione”, sono ancora 143 quelli da scrivere (rispettivamente, 15 sui 34 previsti; 8 su 8; 100 su 137; 20 su 20).
IL MONITORAGGIO
Il monitoraggio degli uffici della Presidenza del Consiglio consente di scattare una fotografia anche dello stato d’“attuazione” di tutti i provvedimenti legislativi del “Conte II”, da cui emerge che, tra decreti del presidente del Consiglio, decreti ministeriali e interministeriali e altri atti, i provvedimenti attuativi necessari per rendere “operative” le normative sono 502, di cui 113 “adottati” e 389 “non adottati”. Ma se si allarga l’obiettivo fino al governo Letta, emerge chiaramente che il decreto attuativo “sospeso” è un tratto comune. Il Conte I ne ha lasciati 183 su 351; Gentiloni 207 su 522; Renzi 118 su 936; Letta 11 su 325. Molti ormai probabilmente inutili e superati da nuovi provvedimenti. La crisi – e l’Europa – chiedono interventi tempestivi e un piano strategico immediatamente operativo: lentezze e ritardi, sovrapposizioni normative e frammentazioni, non sono consentite anche perché il rischio è quello di perdere l’opportunità storica dei 209 miliardi del Recovery Fund su cui ricostruire il Paese.
In un articolo sul Corriere della Sera, Fabio Pammolli e Valerio di Porto ricordano un’altra stagione durissima per il Paese, quella dell’estate del 1992, quando sotto il governo Amato ci si affidò per la prima volta in maniera significativa ai procedimenti delegati per attuare le riforme necessarie, deleghe con un termine di 90, un tempo addirittura dimezzato in tre casi.
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
Dall’Europa, come ricordato, è arrivato l’invito a inserire tra gli interventi “meritevoli” di sostegno la modernizzazione del Paese. L’eccessiva burocratizzazione e l’inefficienza della Pa costituiscono un freno alla crescita, allo sviluppo e alla competitività e all’attrattività dell’Italia. Basta considerare il costo annuo sostenuto dalle imprese nella gestione dei rapporti con la Pa che, secondo una ricerca curata da Ambrosetti Club, è pari a 57,2 miliardi di euro, gravando sulle piccole e medie imprese per 32,6 miliardi, per 24,5 miliardi su quelle di grandi dimensioni: «il totale – si sottolinea nel report – è pari allo stipendio annuale medio di 1.953.000 lavoratori equivalente al 3,3% del Pil italiano».
E si continua: «Se allineassimo l’efficienza della Pa italiana alla media di Francia, Spagna, Germania e Regno Unito si genererebbero 146 miliardi di Pil aggiuntivo, pari alla metà di tutti gli investimenti pubblici italiani del 2018, ovvero al 9,1% del Pil italiano». A questo dato bisogna aggiungere i debiti commerciali che la Pa ha nei confronti delle imprese sue fornitrici, che Bankitalia stima in 53 miliardi.
IL “COSTO” DELLA GIUSTIZIA
C’è poi il “costo” del sistema giudiziario, la cui riforma è stata anch’essa perorata dalle istituzioni europee. Il rapporto sulla giustizia della Commissione europea (Eu Justice Scoreboard 2020, basato su dati 2018), colloca i nostri uffici giudiziari all’ultima posizione in classifica sia per durata dei procedimenti che per arretrato: 527 giorni in media per un giudizio in primo grado in una causa civile; 863 nel secondo grado; 1.266 nel terzo; 2.656 in totale.
LA TRAGICA ESPERIENZA SUI FONDI DI COESIONE
Se il Recovery Plan che il governo dovrà sottoporre a Bruxelles entro il 15 ottobre passerà l’esame, per costruire la ripresa l’Italia potrà contare su 209 miliardi, tra sovvenzioni (82 miliardi) e prestiti (127 miliardi). La scommessa del sistema Paese si giocherà a quel punto anche sulla capacità di spesa, di cui finora non si sono date grandi prove, come ha riconosciuto lo stesso premier. Un esempio su tutti: del programma supportato dal Fondo di coesione e sviluppo comunitario 2014-2020 per un importo di 53,8 miliardi sono stati spesi solo 5-6 miliardi, un miliardo l’anno, mettendo a rischio la parte non spesa per le infrastrutture di 28 miliardi se entro il 2022 non dovesse essere utilizzato. Ed è noto quanto la voce “infrastrutture” sia rilevante nel progetto di ricucitura della frattura territoriale del Paese, anch’esso fortemente caldeggiato dall’Europa.
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