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di FRANCO CIMINO
Muammar Gheddafi è morto. Come avrebbe voluto o come hanno desiderato i suoi nemici, conta poco, ormai. In fondo, la sua fine, e lui che se l’è cercata, ha fatto un favore ai nuovi gendarmi del mondo, che dinanzi alla caduta dei tiranni preferiscono vederli morti, anziché processarli al cospetto del mondo intero. Lo abbiamo già detto in occasione della morte di Saddam Hussein (processato localmente e troppo in fretta) e , in ultimo, di Osama Bin Laden: non ci piace l’esecuzione sommaria di un uomo, neppure del più cattivo. Anche quando l’uccisione è mascherata di aperto combattimento, un uomo vivo da condannare, e duramente, è meglio di un silenzio che cade come una pietra tombale su molte verità. In particolare quelle che hanno consentito, in molte regioni del mondo, a uomini mediocri di diventare i padroni assoluti dei loro popoli. E’ forse questo il motivo, non dichiarato, per cui non vale più il vecchio wanted, “vivo o morto”? O, forse, la preoccupazione che un processo aperto al mondo si trasformi in un atto di accusa, con prove alla mano, nei confronti di quegli Stati e di quei governanti che hanno collaborato con quei dittatori? Addirittura, per taluni, favorendone l’ascesa al potere? O è la paura di essere chiamati a una sorte di correità, non soltanto morale, che li ha portati a “desiderare” la morte dei dittatori? Saddam, Bin Laden, Gheddafi, quando sono stati uccisi erano già stati sconfitti e ridotti alla totale privazione del potere. E sconfitti proprio da quei Paesi, in particolare occidentali, che li scoprono dittatori insopportabili dopo averli coccolati per decenni in cambio di colossali affari, che hanno affamato popoli di intere regioni e arricchito i loro padroni. E, forse, anche sotterraneamente qualche politico-affarista degli Stati cosiddetti democratici. Non è un caso che i dittatori vengano abbattuti solo dopo che gli aspiranti successori, trovati forse con lo stesso metodo, vanno a fare visita ai capi di Stato, a cui forniscono garanzie che i rapporti economici e le commesse in atto saranno tutte rispettate. La vergognosa corsa nella Tripoli ancora fumante di Nicolas Sarkozy e David Cameron, che hanno avuto il “garbo” franco-inglese di parlare davanti alle macerie, ne è la riprova più umiliante. Dell’Italia è meglio non parlare. Non so se c’era da vergognarsi di più quando il nostro presidente del Consiglio ha baciato la mano del rais e preparato costose ed imperiali accoglienze, oppure quando spudoratamente l’amico Berlusconi e il nostro ministro degli Esteri l’hanno pubblicamente ripudiato. L’America è fuori discussione, essendo nota la sua filosofia sull’amicizia nel mondo e sul carattere “diplomatico” delle sue relazioni internazionali. Un Gheddafi morto è meglio di un testimone parlante, allora? Magari per ore, com’era suo solito nei suoi comizi infiniti ai libici? Non è dato sapere. Di certo il dittatore libico, che voleva diventare imperatore del mondo arabo e stringere i rubinetti del petrolio e del gas, avrebbe potuto dire tante cose. E dirle all’umanità, non soltanto alla sua Libia, con la quale, perdendo progressivamente di senno, ha voluto identificare la sua persona elevandola a divinità. Il mondo deve capire che oggi nessun dittatore potrebbe nascere con la prima pioggia d’autunno. Se un uomo qualsiasi mette la divisa e sul petto decine di medaglie, siede su un trono di cartapesta e suscita nel popolo un rabbioso orgoglio identitario, non è perché il popolo lo acclama. E’ perché qualcuno ce l’ha portato. O ha fatto finta di non vedere.
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